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Economia & Impresa sociale 

Quale welfare senza prossimità?

di Laura Orestano

Una chiacchierata sui temi del welfare e della prossimità: quali sfide per l’Italia del 2022?

Alla luce dei dati emersi nel Bilancio di welfare delle famiglie italiane | Rapporto Cerved 2022 ho chiesto ad Ezio Manzini di condividere con noi spunti di riflessione in merito alle nuove esigenze della comunità pandemica e post-pandemica in termini di cura, qualità della vita e assistenza e agli asset che dovrebbero ispirare le policy dei prossimi anni per offrire soluzioni efficaci.

Autore di Abitare la prossimità (Egea 2021), per più di tre decenni Ezio Manzini ha lavorato nel campo del design per la sostenibilità. Recentemente, i suoi interessi si sono focalizzati sull’innovazione sociale, considerata come uno dei maggiori agenti del cambiamento. Su questo tema ha promosso e, attualmente, presiede, DESIS: una rete internazionale di scuole di design specificatamente attive nel campo del design per l’innovazione sociale verso la sostenibilità (https://www.desisnetwork.org/).

Attualmente è Presidente di DESIS Network e Professore Onorario al Politecnico di Milano.È stato professore invitato in molte scuole internazionali, come, nell’ultimo decennio: Elisava-Design School and Engineering (Barcelona), Tongji University (Shanghai), Jiangnan University (Wuxi), University of the Arts (London), CPUT (Cape town), Parsons -The new School for Design (NYC).

Fra i suoi libri più recenti anche Design, When Everybody Designs. An Introduction to Design for Social Innovation (MIT Press 2015), Politiche del quotidiano (Edizioni di Comunità, 2018) e Abitare la prossimità (Egea, 2021)

Laura Orestano:

Dal Bilancio di welfare delle famiglie italiane | Rapporto Cerved 2022 emerge che nel 2021 i cittadini italiani hanno speso 137MLD€, pari al 7,8% del PIL, con voci di costo che si concentrano nelle aree salute e assistenza anziani (30MLD€), seguite in sequenza dai supporti al lavoro, l’istruzione dei figli, l’educazione prescolare e cura dei bambini, la previdenza e, in ultimo, cultura e tempo libero (5,1MLD€).

C’è poi un’analisi interessante sulle rinunce alle prestazioni di welfare, ad esempio sull’assistenza ad anziani e persone bisognose di aiuto. Il 31,9% afferma di aver rinunciato per indisponibilità di servizi adatti, il 29,5% per la qualità insufficiente, il 27% per problemi economici e il 16,9% per aver ricevuto un rifiuto.

Cosa ci dicono questi dati rispetto alle sfide che il welfare deve affrontare in termini di tipologia dei servizi da offrire e di innovazione degli stessi?

Ezio Manzini:

Il fatto che gran parte delle spese sia legata ai temi della salute e dell’assistenza agli anziani è coerente con la struttura demografica del nostro paese. Certo, potremmo dire che ci piacerebbe che la cultura potesse avere un peso maggiore, e magari anche lo sport. Ma in un paese in cui la quantità di persone anziane è così importante mi pare normale che gran parte delle risorse sia destinata a quella voce di spesa. Il problema è come questi soldi sono spesi.

Per parlarne sarebbe opportuno entrare nel merito dei cambiamenti demografici non solo riguardo al numero di anziani – ormai la parola “anziani” si riferisce a una categoria troppo vasta e diversificata – ma anche riguardo ai cambiamenti nella struttura delle famiglie e della società: se diminuisce la dimensione delle famiglie, se cresce il numero di quelli che vivono da soli, se si sciolgono le tradizionali comunità di quartiere e di villaggio è ovvio che diventa sempre più vasta l’area di attività di cura in cui i servizi formali devono sostituirsi a ciò che prima ci si scambiava reciprocamente, in via informale in famiglia o nel vicinato. In questo quadro di lungo periodo, i dati sulla rinuncia alle prestazioni del welfare nel 2021, cioè nell’anno del COVID, ci mostra una dinamica che appare in controtendenza a quanto ora detto. Il tema va studiato con attenzione. Ma, volendo fare un’ipotesi di prima approssimazione, si potrebbe dire che il fenomeno sia da mettere in relazione con l’obbligo a stare casa. E quindi, con la possibilità/necessità per le famiglie e, in particolare per le donne, di farsi carico di molte di quelle cure agli anziani che prima del COVID si esprimevano come richiesta di servizi del welfare.

Laura Orestano:

Secondo te potremmo ipotizzare che ogni contrazione di spesa o acquisto abbia una base dell'iceberg costituita da uno scambio informale?

Ezio Manzini:

Certamente! Infatti, la natura e il valore dei servizi informali, primi tra tutti quelli che hanno luogo in famiglia, non emerge da questi dati. E, prima di tutto, da essi non emerge il ruolo delle donne e l’effetto che queste trasformazioni hanno sulle diseguaglianze in generale, e su quelle di genere, in particolare. Il tema da porsi dunque è: come mettere in atto politiche pubbliche capaci di valorizzare le attività di cura informali evitando i rischi di diseguaglianza di cui si è detto? Come costruire un nuovo welfare, che potremmo chiamare un welfare di comunità, caratterizzato dall’avere una rilevante dimensione collaborativa e di prossimità?

Laura Orestano:

Possiamo parlare di una recente riscoperta della prossimità? Quali esperienze e suggerimenti?

Ezio Manzini:

Con la pandemia abbiamo scoperto, o riscoperto, che il concetto e le pratiche di cura, per loro natura, richiedono la prossimità. Infatti, la cura è tattile: non c’è possibilità di cura se le persone non si scambiano qualcosa che può essere fatto solo in prossimità. Poi, che il sistema di welfare possa prevedere anche soluzioni organizzative online, ha certamente senso. Ma anche queste forme di organizzazione supportate da sistemi digitali, per essere veramente in grado di generare relazioni di cura, devono prevedere momenti di scambio fra persone in presenza, una di fronte all’altra.

Sembra un’osservazione ovvia, ma molti se ne erano dimenticati. Poi, in questi due difficili anni, la pandemia ci ha costretti a ricordarlo. Cioè a ricordare che tutti abbiamo un corpo. Che il nostro corpo è collocato nello spazio fisico in un sistema di prossimità. E che questo sistema di prossimità può avere diverse caratteristiche ed essere più o meno adatto all’esistenza di relazioni di cura.

In pratica, se guardiamo all’insieme dei servizi di welfare come ad un sistema socio-tecnico capace di cura, osserviamo che, per poter esserlo, deve essere reticolare, distribuito sul territorio e radicato in esso.

Prima del Covid-19 c’erano scuole di pensiero e politiche di welfare che proponevano invece di sradicare i servizi dal territorio, creando grandi poli in cui concentrare le risorse. Il risultato dell’applicazione di questa visione è stato, in alcuni casi, la creazione di centri di eccellenza, ma anche, in tutti i casi, l’abbandono del territorio.

Per fortuna, questa linea non è stata seguita dappertutto e, in Italia, ci sono regioni che, pur con difficoltà, hanno mantenuto sistemi territoriali funzionanti.

È successo così che, investiti dalla pandemia, i sistemi orientati ai poli di eccellenza (e alla privatizzazione della salute) come quello lombardo, sono crollati. Mentre quelli in cui il presidio territoriale e pubblico era stato mantenuto (penso, per esempio, all'Emilia Romagna, alla Toscana e al Veneto) hanno retto meglio. Il che ha reso visibile e tangibile per tutti l’importanza della territorialità intesa come conoscenza del territorio stesso, e come capacità di dare risposte là dove le persone si trovano.

L’evidenza di questi risultati è stata tale da costringere a prenderla in considerazione in tutte le discussioni sul welfare che ne sono seguite. Così è successo che, nello stesso PNRR, tra le sei “missioni” che lo compongono, quella in cui si parla esplicitamente di territorialità è proprio quella che riguarda la salute.

Laura Orestano:

La territorialità non è neutra, non è anonima. Anche la prossimità non può svolgere il suo migliore ruolo se viene formattata o normalizzata. Da un punto di vista progettuale, pensi che questi siano requisiti, sensibilità che possano orientare i nuovi servizi che queste infrastrutture dovranno presidiare?

E poi, basta riavvicinarsi per avere qualità e “puntualità” in termini di rilevanza dei servizi di cura?

Ezio Manzini:

Immagino sia una domanda retorica: naturalmente no, non basta la territorialità perché i servizi del welfare siano efficienti. E tanto meno per far sì che essi siano anche servizi relazionali capaci di stimolare e sostenere nuove forme di comunità.

Però è dimostrato dalla pratica che la loro organizzazione in forma distribuita rende possibili e probabili delle interazioni che possano evolvere in relazioni. E che queste possono basarsi sulla fiducia, sull’empatia e sulla collaborazione, diventando così i “materiali da costruzione” di una possibile comunità.

La creazione di un sistema di servizi distribuito, cioè territorializzato, è dunque una condizione necessaria alla creazione di un welfare di comunità. Ma non è sufficiente. Per realizzare un welfare di comunità serve che ci sia, o che si costruisca, una comunità che ad esso faccia riferimento. Occorre cioè che intorno ad esso si avvii un processo di socializzazione che porti alla costruzione di una comunità della cura. Occorre cioè che i cittadini e le loro associazioni vedano in esso un riferimento e un supporto per tutte le loro attività di cura.

Laura Orestano:

Cosa serve per cogliere questa sfida? Non si tratta solo di una sfida di visione politica intelligente, informata, evoluta. C’è una sfida anche in termini di competenze, e qui il ruolo dell’Innovazione Sociale è un ruolo attivo, importante.

Ezio Manzini:

Potendo progettare la situazione ottimale, occorre innanzitutto portare i servizi (medici, infermieri, assistenti sociali che li mettono in atto) vicini alle persone. Chiunque dovrebbe sapere che in qualunque momento in quella struttura di prossimità può trovare delle persone esperte che lo possono aiutare.

Sapere che vicino a te, nel tuo quartiere o nel tuo paese, c’è una struttura a cui puoi sempre fare riferimento per un problema di salute, senza bisogno di andare al pronto soccorso per ogni evenienza, fa una grande differenza. Ma si può e deve fare di più. Oltre al fatto che questi servizi siano fisicamente vicini, è importante che tra personale professionale e cittadini si instauri una forma di vicinanza anche relazionale. In altre parole, deve stabilirsi tra loro un sistema di relazioni che porti a costruire la comunità della cura di cui si diceva.

In questo quadro, è evidente che le Case della salute che già esistono in alcune regioni, e in futuro le Case della comunità di cui parla il PNRR, potrebbero essere il luogo fisico e sociale in cui tutto questo potrebbe avvenire. Ma perché ciò avvenga occorre volerlo e lavorarci su.

Laura Orestano:

Può tutto questo essere progettato? Come può la società civile partecipare a questo processo? Occorre spingere perché sieda al tavolo delle decisioni per creare le condizioni istitutive e progettuali delle comunità di cura?

Ezio Manzini:

Se ci sono la volontà politica e le risorse economiche per farli, i servizi distribuiti sono fin da ora del tutto progettabili e realizzabili. Viceversa, il fare comunità non è qualcosa che si può realizzare per decreto. Quello che si può fare è creare delle opportunità affinché ciò avvenga: progettare servizi collaborativi che mettano in moto energie e competenze. Nel nostro caso: che progressivamente creino reti sociali intorno al tema della cura e della salute.

Per portare un esempio, posso riferirmi ad un’iniziativa alla micro-scala in cui attualmente sono impegnato come cittadino attivo. Il mio comune di 10mila abitanti ha già una Casa della salute. La prospettiva è che, con il PNRR, essa diventi una Casa della comunità: cioè un luogo in cui dottori, infermieri, assistenti sociali e cittadini si incontrino e interagiscano su temi legati alla cura.

Abbiamo iniziato facendo una mappatura delle associazioni che gravitano intorno al Comune sul versante sanitario e sociale, e abbiamo creato un comitato (il Comitato per la comunità della cura) la cui finalità è quella di far diventare le associazioni stesse interlocutrici e protagoniste dei processi di co-progettazione che porteranno alla realizzazione della Casa della comunità. Nel frattempo, poiché sappiamo che una comunità vive perché ha progetti a cui lavorare, stiamo sviluppando una serie di iniziative leggere, da implementare rapidamente. Siamo partiti da un progetto relativo al primo soccorso (e, in particolare, alla gestione dei defibrillatori e alla diffusione della capacità necessarie ad utilizzarli correttamente). In parallelo, stiamo sviluppando un progetto che usa la produzione di video e un laboratorio teatrale per l’attivazione dei giovani nelle attività di cura. Infine, stiamo lavorando per la creazione di una “rete dei borghi solidali”. Si tratta di valorizzare ciò che resta del senso di prossimità e di comunità che caratterizzava i borghi del passato e che, in parte, ancora permane, attualizzandolo e facendolo evolvere in una rete di micro-comunità della cura, da mettere in relazione con il sistema dei servizi sanitari e sociali, e la Casa della comunità che con il PNRR verrà realizzata.

Laura Orestano:

Mi fai pensare ad un esempio ispirato alla mia esperienza personale.

Io ho avuto due figlie, le cui gravidanze sono avvenute in due paesi diversi.

In UK c’era ancora il National Health Service, e la “casa delle mamme” locale mi contattò per segnalarmi che avrebbero provveduto ad ogni mia esigenza, venendomi incontro senza bisogno che io mi attivassi per cercare aiuto. C’erano piccole comunità di cura locali che seguivano il territorio offrendo assistenza non-medicalizzata là dove questa non era effettivamente necessaria.

In California, invece, la prima frase che mi dissero fu “congratulations, you’re one of our best clients!”. Inutile sottolineare la differenza di approccio fra i due paesi e il fatto che, in questo secondo caso, il trattamento era chiaramente vincolato al tipo di assicurazione sanitaria della cliente in questione.

Un’ultima domanda. L’attività di SocialFare come sai è molto focalizzata sull’accompagnamento di nuove imprese a impatto sociale, prototipi di attività imprenditoriale che cercano di cambiare il mondo in cui viviamo coniugando sostenibilità economica, sociale e ambientale.

Se tu dovessi guardare, attraverso il punto di vista che ci hai appena illustrato, l’attuale situazione e le condizioni di cura del nostro paese, cosa chiederesti, quali aspetti vedresti come fondamentali nel valutare una nuova soluzione di welfare?

Ezio Manzini:

Un modo parziale e indiretto, ma molto semplice, per valutare l’efficacia del welfare collaborativo e di prossimità di cui stiamo parlando è verificare di quanto la sua esistenza riduca la pressione sui Pronto Soccorso degli ospedali: se questa pressione si riduce significa che le persone hanno trovato sul territorio altri modi per rispondere alle loro esigenze di cura.

In questa stessa linea, si può valutare quanto le persone con delle fragilità riescono a condurre una vita indipendente, evitando di entrare in istituzioni dedicate. Consideriamo, per esempio, il tema degli anziani. In un’epoca in cui, per varie ragioni, gli anziani si trovano sempre più soli, o si sentono sempre più di peso per le loro famiglie, molti di essi tendono ad andare a vivere nelle RSA. Ma questa non è necessariamente la soluzione migliore. È infatti un po’ come un’ospedalizzazione che avviene anche là dove le condizioni di salute non lo richiederebbero. L’esistenza di un welfare collaborativo e di prossimità dovrebbe modificare questa tendenza, proponendo forme di supporto e cura basate su servizi a domicilio, centri di day-care, co-housing per la terza età, integrate nella comunità della cura di cui si diceva. In questo modo, il quartiere o il villaggio dovrebbero funzionare come “case di riposo distribuite”: luoghi in cui un anziano possa vivere a casa propria avendo la stessa percezione di sicurezza e la stessa assistenza in caso di necessità che potrebbe avere in una casa di riposo. Questo modello è stato adattato, per esempio, a Barcellona dove i servizi sociali sono stati territorializzate e riorganizzati a scala di quartiere e dove sono state costruite reti di negozi, farmacie e centri sociali che operano come antenne sociali sul territorio (allertando gli assistenti sociali o chi di dovere se, ad esempio, un anziano non viene visto nei luoghi che solitamente frequenta).

Mi pare che questi siano ancora piccoli esempi, ma indichino dei temi su cui riflettere e delle direzioni verso cui andare per costruire nuovi e appropriati modelli di welfare.

Laura Orestano:

il welfare diviene una piattaforma di senso grazie alla quale progettare e sperimentare modelli e innovazioni che, forse più che in altri settori, possono rendere osservabili e misurabili in modo chiaro gli effetti generati ma soprattutto possano includere facendo, attivare imparando, sperimentare mettendo in atto soluzioni rilevanti per le persone e le comunità.

Concluderei dicendo che SocialFare è nata come impresa sociale per cogliere proprio questa sfida: la prossimità e l’innovazione del prendersi cura, della cura in senso ampio purché concretamente partecipata e di senso, purché progettata così. Gli scenari attuali richiedono delle scelte ancora più definite pur sempre in una modalità di “sperimentazione permanente”.


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