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Italo Calvino, l’inferno, la vita e l’informazione

di Riccardo Bonacina

Nella notte tra il 18 e il 19 settembre di 25 anni fa a Siena moriva Italo Calvino, autore che ho molto amato negli anni dell’Università. Anche per la coincidenza di date ho scelto come esergo alla mia relazione al Convegno di Retinopera lo scorso 18/19 settembre ad Assisi, dedicato alla ri-generazione del Paese, proprio un passaggio notissimo de Le Città invisibili.

“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni … Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.

Un’osservazione che, dobbiamo riconoscere, in maniera ancor più fulminante e meno intellettualistica aveva cristallizzato in uno splendido verso Hölderlin: “Dove c’è pericolo cresce anche ciò che salva”. Che c’entra questo con il ruolo dell’informazione con la ri-generazione dell’Italia? C’entra c’entra.

Affinchè si possa riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio OCCORRE CHE QUALCUNO LO RACCONTI che qualcuno ne faccia rappresentazione e la faccia bene, usando tutti i linguaggi e se possibile meglio degli altri. Perchè ci si accorga che là dove c’è il pericolo cresce anche ciò che salva, occorre che qualcuno se ne accorga e lo racconti.

Non si tratta di fare santini, al contrario, ma di raccontare la vita, in tutta la sua bellezza, fatica, speranza, fede quotidiana (quella che ogni mattina ci fa alzare per andare al lavoro). Come diceva un autore del Novecento che amo, Maurice Blanchot in La communità inconfessabile: “La vita in comune esige che si viva all’altezza della morte”. Ecco tutto ciò che non è inferno, e siamo circondati da ciò che non lo è (io non riesco a tener dietro al suo racconto), non sono storielle, ma biografie di gente ad altezza di vita e di morte, di gente che vive all’altezza dei desideri del proprio cuore, gente in cui i desideri e gli ideali non si sono ancora corrotti nella mera dimensione del godimento e perciò del disperdimento, o del piccolo proprio particolare.

Non c’è dubbio, uno dei vulnus della democrazia oggi, e non solo in Italia, è l’informazione (ma non nei termini per cui si sono inscenate anche proteste corporative in questi mesi, i termini sono molto più drammatici). È evidente ormai che non si tratta di un problema di equilibri o di spazi da misurare con improbabili osservatori; la malattia è ben più grave e seria, e riguarda il sistema dell’informazione, il suo linguaggio e il codice stesso della professione di coloro che dovrebbero essere preposti al racconto e all’informazione, i giornalisti. Come sottolineò il presidente Ciampi nell’aprile 2004, ad una platea di giornalisti e in modo semplice «c’è un’Italia che i giornali e le tv non vedono e non raccontano, che voi non vedete e raccontate. Ed è l’Italia più interessante».  L’Italia generativa, diremmo noi qui, quella da cui solo si può ripartire, quella che non consuma le riserve di capitale sociale e di gratuità, ma le ri-produce. È l’Italia reale e fangosa, lontana dai riflettori dei talk show e dalle prime pagine dei giornali, dove si gioca il presente e il futuro di questo Paese.

Occorre un racconto come lo ha disgnato un grande pensatore, Pietro Barcellona: «Di fronte alla fine della grande politica, al vacillare di ogni fede, all’incombere della tecnologia che tende a neutralizzare le passioni trasportandole in un mondo virtuale, l’uomo è ancora chiamato a dire perchè vale la pena vivere . Invece, i media, ci propongono soltanto una sceneggiata del confronto. Le trasmissioni di Vespa, Floris, Lerner ecc. sono una forma di diseducazione alla pratica dell’interrogare e del rispondere. Oltre al nichilismo esplicito c’è, infatti, un nichilismo pratico, che consiste nel divulgare l’idea che ogni dibattito politico si riduca alla presentazione degli stessi volti e dei soliti discorsi con l’invocazione finale al reciproco rispetto. La prima rivoluzione culturale di cui questo Paese ha bisogno è la verità del confronto, l’apertura dello spazio pubblico ai “dilettanti della vita” che praticano giornalmente la fatica di lavorare, insegnare, educare, amare e soffrire. Facciamo davvero posto alla “gente” di cui tutti parlano a sproposito: facciamo parlare i giovani, gli operai, le casalinghe, gli anziani, i malati. Smettiamola con il nichilismo della fiction e con la semplificazione opportunistica degli schieramenti politici. Nel mondo comune le parole sono ancora pesanti, perchè chi le pronuncia ne vive i significati, incarnandoli. Smettiamola di parlare di onestà in astratto e mostriamo, invece, che cosa fanno e dicono gli uomini e le donne oneste. La prima reazione al nichiilismo è la verità della vita quotidiana”.


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