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Politica & Istituzioni

Oggi è morto il mio amico Emanuele Banterle

di Riccardo Bonacina

È camminando che si traccia la strada (Antonio Machado)

Oggi è morto il mio amico Emanuele, aveva solo 55 anni. Ed è un fatto pubblico il dolore che mi coinvolge, non solo perchè le agenzie battono la notizia, ma perchè la nostra amicizia è stata (e sarà) segno della ricerca del volto di Dio e del volto dell’uomo. Facendo teatro, andando in vacanza, nell’informazione. Solo un mese fa con il n. 52 di Communitas, attraverso la scrittura di Luca Doninelli abbiamo raccontato la storia di questa amicizia pubblica. Vi ripropongo un brano dell’introduzione che racconta quanto un’amicizia nata nel 1975 può durare e costruire:

«La nostra è un’amicizia che durò, e che ancora dura (perché una vera amicizia è per sempre), perché nata da una vicendevole sorpresa. Quella di noi giovani universitari, e quella sua, di “maestro”, Giovanni Testori. La sorpresa di un’amicizia che aveva a tema la passione per la vita e la realtà. Quel rapporto originò percorsi individuali e di gruppo, fu fucina di pittori, scrittori, giornalisti. Ci si trovava a ideare mostre, incontri e dibattiti, nacquero libri, riviste, un circuito di Centri culturali, una compagnia teatrale, Gli Incamminati, la cui storia è in questo numero di Communitas magistralmente raccontata da uno di quei giovani universitari, Luca Doninelli oggi, guarda a caso, scrittore noto e altrettanto “isolato” dai salotti che contano.

La casa di Testori a Novate divenne presto un vero luogo di ritrovo, una scuola. Ascoltarlo significava imparare in modo vivo, affinava il nostro giudizio, soprattutto insegnava, a noi giovani del ’77, che cultura e vita sono originalmente impastate in modo inestricabile. Testori c’incoraggiava a osare la navigazione in mare aperto, propo- nendo una sfida per ciascuno di noi, accompagnandoci sino all’usci- ta dei nostri tranquilli porti delle nostre sicurezze e protezioni, invi- tandoci a non avere mai paura. «Di che avete paura?», diceva, «qui intorno è tutto un brodino. Un intreccio di piccoli interessi e scambi di prebende. Siete così pieni di vita e poi il dono che avete ricevu- to non è vostro, perciò di che vi spaventate».

Anche la storia de Gli Incamminati si origina in quegli anni e in quell’amicizia. Ricordo con emozione il giorno in cui, dopo tante discussioni mai banali, Testori battezzò la nascita della nuova Compagnia. Era il luglio 1983 e durante la conferenza stampa di presentazione, al ristorante “Rigolo” di Largo Treves a Milano, Testori disse: «Si chiama Gli Incamminati, è una cooperativa che prende il nome da una celebre accademia d’arte del Seicento bolognese. Ma non è il richiamo a quei pittori a interessarci quanto l’in- dicazione programmatica contenuta nel sostantivo: di uomini in cammino verso la fondazione di una forma teatrale dell’oggi (…) Lungi dal produrre sogni e illusioni, il teatro deve perciò aiutarci a liberarci di ogni fatua rappresentazione dell’esistenza. Non esiste libertà se non nell’adesione totale al destino: è di questo che il teatro parla, essenzialmente».

Come con acutezza, arguzia critica e vastità di scrittura racconta nelle pagine che seguono Doninelli, sta proprio qui l’impronta che Testori lasciò a noi giovani, Emanuele in testa, e poi a Branciaroli e poi ancora a tutti i protagonisti di una storia ormai trentennale e dai numeri poderosi come si può constatare consultando la Teatrografia pubblicata in appendice a questo numero.

Sempre, ma soprattutto a teatro dove pur deve riaccadere sulla scena, è vietata la parola che non c’entra con la vita dell’uomo, ci insegnò Testori. Perché è proprio lì, solo lì, nella realtà feriale o in quella artificialmente (attraverso un atto creativo e della volontà) fatta riaccadere su un palcoscenico nel corpo dell’attore, è rintraccia- bile l’auctor, il segno creaturale, il marchio, l’impronta che sola ci per- mette di interrogarci in maniera feconda e non disperante sul senso del nostro essere al mondo.

Una storia che ha avuto un abbrivio così fulminante e intenso, come ogni storia del resto, non aveva nessun altro riparo o garanzia che non fosse la volontà dei suoi protagonisti di restar fedeli a quell’impronta iniziale, di risceglierla individuandone il fuoco originario sotto ogni cenere che il tempo avrebbe inevitabilmente depositato. A partire dallo stesso Giovanni Testori capace di farsi figlio del suo stesso iniziare, e oltre Testori, poi scomparso nel 1993. E sta proprio qui il cuore e la forza del racconto di Doninelli, la sua capacità di rintracciare il filo intimo di tutta la storia, il filo che ha guadagnato durata e futuro, in anni difficilissimi per il teatro e non solo, a quel folgorante e inaspettato inizio.

C’è una pagina di Chales Péguy che a me pare nominare in sintesi il segreto di questa storia: «Quando l’allievo non fa che ripetere non la stessa risonanza, ma un miserabile ricalco del pensiero del maestro; quando l’allievo non è che un allievo, fosse pure il più grande degli allievi, non conterà mai nulla. Un allievo non comincia a contare che quando introduce egli stesso una risonanza nuova. Non che non si debba avere un maestro, ma uno deve discendere dall’altro per le vie naturali della filiazione e non per le vie scolastiche del discepolato» (Cahiers, VIII, XI 3.2.1907).

I sessanta spettacoli degli Incamminati, prodotti in quasi trent’anni di storia e replicati migliaia di volte in ogni angolo d’Italia, teatri, chiese, piazze, sono stati ogni volta un ri-inizio, una ri-fondazione, come se ogni passo fosse una ricerca di un’accordatura capace di una risonanza nuova. Un’accordatura non sempre armonica, qualche volta tesa o addirittura stonata, ma sempre in cammino.

Perciò, la parola più adeguata, a me pare, a sintizzare la storia degli Incamminati è quella usata da Péguy, filiazione. Testori prima di ogni altro riuscì a farsi figlio di quell’incontro e di quell’inizio di sto- ria, e poi Emanuele Banterle, Gian Mario Bandera, Franco Branciaroli e i tantissimi che sono stati coinvolti negli anni, nella prima o nell’ultima ora, sono stati capaci soprattutto di figliolanza ad una storia in cui nessuno ha scelto di recitare la parte del discepolo o, peggio ancora, dell’allievo. Tutti ne han voluto essere figli. Giocandosi in prima persona, rischiando, sacrificandosi anche, sba- gliando, ritrovando a volte il fulgore delle intuizioni, scoprendo nuovi e inaspettati amici. Mai vivendo di ricordi.

È giustissima la notazione finale di questo libro: “C’è chi si batte per un bene prorio, per un proprio pensiero, per una propria idea – insomma, per una sua proprietà. Il patrimonio degli Incamminati, viceversa, sta tutto in qualcosa che non appartiene loro, in qualcosa che hanno ricevuto in eredità, in qualcosa che viene da lontano. Tutto quello che cercano è dire qualcosa che hanno a loro volta imparato”. Per questa ragione, quella degli Incamminati è propriamente una storia da Communitas; perchè qui si racconta la storia di un modo di vivere nel tempo, il rapporto tra comunità e scena, tra amicizia e palcoscenico, tra vita e rappresentazione. Una storia che per durare ha richiesto dei sì e anche una vera e propria politica dell’amicizia, che è esattamente il contrario dell’amicizia politica.

Come scriveva Maurice Blanchot, l’amicizia è “questo rapporto senza dipendenza e in cui pure entra tutta la semplicità della vita (…) gli amici dobbiamo accoglierli nel rapporto con l’ignoto in cui essi ci accolgono, anche noi, nella nostra lontananza”. E nella storia degli Incamminati questa amicizia sul bordo dell’ignoto ha riguardato non solo i protagonisti dell’avventura ma l’incontro e l’offerta del proprio cammino e della propria ricerca al termine di paragone ulti-mo di ogni serio percorso teatrale, il pubblico, o meglio, il popolo. Come giustamente nota Doninelli, gli Incamminati sin dall’inizio hanno perseverato in una strada di teatro popolare, dove con questo termine non si presuppone un “per”, ma un “con”. I trent’anni della sua storia, perciò appaiono come un’esemplificazione di ciò che si può intendere come “comunità di destino”.

“Il teatro deve aiutarci a liberarci di ogni fatua rappresentazione dell’esistenza. Non esiste libertà se non nell’adesione totale al destino: è di questo che il teatro parla, essenzialmente” disse Testori nel lontanissimo luglio 1983. Ma questo, capimmo poi strada facendo e percorrendo diverse strade, era consegna prima ancora che per il teatro per tutta una vita».

Ciao Emanuele, ora proteggici dal Cielo e ispira il nostro cammino. Riccardo


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