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Van Gogh-Artaud, darsi il fastidio d’essere

di Riccardo Bonacina

Un piccolo guaio fisico e una mostra (a Parigi sino al 6 luglio “Van Gogh-Artaud) che ho avuto la fortuna di vedere mi hanno riportato a provare la stessa passione e trasporto rispetto i testi da cui ero partito molti, molti anni fa, scrivendo il mio primo libro da quella che fu la mia testi di laurea. Ecco cosa ne è uscito.

1 All’origine c’è il dolore

Dimenticatevi la psichiatria, le esperienze di transfert, le camicie di forza e l’arte-terapia, i racconti mitici su van Gogh e sullo stesso Artaud, artisti maledetti. Se davvero volete immergervi in Van Gogh il suicidato della società, un libro (e una mostra al Musée d’Orsay) nato dall’incontro tra van Gogh e Antonin Artaud una mattina del 2 febbraio all’Orangerie a Parigi, se davvero volete fare di queste pagine un’esperienza di vita, per la vostra vita e per la sua comprensione, bisogna parlare del dolore. Il dolore di Antonin e il dolore di Vincent, del dolore nostro e di ogni uomo, di questo si parla in questo libro. La “sofferenza del pre-natale”.

A tema non vi è una patologia, ma la condizione umana, che Artaud vuole sottrarre, giustamente, al discorso psichiatrico. No la psichiatria non sarà l’ultima parola sull’uomo, urla Antonin con Vincent. Nelle poche giornate in cui Artaud scrive il libro, chiede a Paule Thévenin di leggergli un saggio di Adolphe van Bever dedicato a una retrospettiva di van Gogh del 1937 e ripubblicato in occasione della mostra all’Orangerie, intitolato “La sua pittura è quella di un folle”. Antonin Artaud ruggisce, inveisce e chiede alla giovane Thévenin di rileggergli anche alcuni brani delle lettere di Vincent a Theo, poi scrive: “No, van Gogh non era un pazzo, ma le sue pitture erano pece greca, bombe atomiche, la cui angolazione, confrontata con tutte le altre pitture che imperversavano in quell’epoca, sarebbe stata capace di turbare gravemente il conformismo larvale della borghesia del Secondo Impero e degli sbirri di Thiers, di Gambetta, di Felix Faure, come quelli di Napoleone III. Perché la pittura di van Gogh non attacca un certo conformismo di costumi, ma il conformismo stesso delle istituzioni”.

Tutto in Artaud trae origine da un’esperienza di dolore, esperienza da cui non può prescindere perché non è un’esperienza astratta o intellettuale, ma concreta, fisica, carnale, sin da adolescente. Solo avendo ben presente questo ci si può spiegare perché Artaud non accetterà mai una proposta di salute, di salvezza, situata a livello del pensiero, dell’idea, della forma artistica e non a livello della carne. Ad Artaud non interessano il teatro, la poesia, la scrittura, la pittura in se stessi, ma come luoghi in cui combattere la schiavitù della malattia, il ricatto della sofferenza, come pratiche in cui l’abiezione, il dolore, l’impurità sono vinti e riscattati in un corpo guarito, glorioso, forma incarnata dello spirito. Basta leggere il corpus di lettere del 1923-26 che un Artaud under 30 e in piena stagione creativa scrive sia a Génica Athanasiou  che a Jacques Rivière, direttore della Nouvelle Revue Française. A Génica: “Ma non capisci che non ho l’uso dell’assoluto nonostante lo pressi ogni istante con forza. Sono spogliato dalla mia carne e dall’attualità in questo mondo.” A Rivière: “Sono un uomo che ha molto sofferto nello spirito e a questo titolo io ho il diritto di parlare”.

Oltre vent’anni dopo scrive in Van Gogh il suicidato della societàNessuno ha mai scritto o dipinto, scolpito, modellato, costruito, inventato, se non, di fatto, per uscire dall’inferno”. Neppure Vincent, come confessa nella sua ultima lettera (27 luglio 1890) “Per il mio lavoro, io ci rischio la vita, e la mia ragione vi è quasi naufragata…”.

Solo un mese prima della mostra all’Orangerie, il 13 gennaio 1947 si è celebrata la rentrée di Artaud sulla scena parigina. La sala del  Vieux-Colombier in pieno quartiere Saint-Germain-des-Prés annuncia “Tête à tête par Antonin Artaud”. Lui solo con se stesso sul palco di fronte a tutta l’intellettualità parigina e i loro sensi di colpa per i 9 anni in cui hanno abbandonato uno di loro all’ internamento e al calvario doloroso degli elettrochoc. Su quel palco, tagliando un silenzio teso nell’affollatissima sala, Artaud scandirà queste parole: “Noi non siamo ancora nati, noi non siamo ancora al mondo. Non c’è ancora il mondo, le cose sono ancora da fare, la ragione d’essere non è stata trovata”. Sfinito cinquantenne che ne dimostra ottanta, le costole rotte dalle scariche elettriche, magrissimo e col viso scavato, ifogli che gli cadono a terra come gli occhiali, per Artaud è ancora una volta la domanda sul senso e sul dolore dell’essere al mondo.

C’è del destino nell’incontro tra Antonin Artaud e Vincent van Gogh la fredda mattina del 2 febbraio 1947 all’Orangerie. Appunti scritti a caldo, dopo una visita veloce e nervosa, poi un’altra visita e altri frammenti redatti tra l’8 febbraio e il 3 marzo 1947 che diventano un saggio pubblicato a settembre  dello stesso anno. Saggio che consacrerà Artaud con un consenso unanime ed inedito, non gli era mai successo prima. C’è del destino che è più di una serie di coincidenze, e c’è, soprattutto, quel pedinamento instancabile, inesauribile dell’infinito e della domanda di senso, senso di sé e delle cose, della realtà carnale da cui nessuno dei due si stacca. Non solo, quindi, i percorsi tra una casa di cura e l’altra e durante il corso dell’intera vita, gli internamenti, i rapporti stretti e controversi con alcuni medici, il dottor Ferdière nel caso di Artaud, direttore dell’ospedale psichiatrico di Rodez e adepto dell’arte-terapia, o il dottor Gachet, nel caso di van Gogh, omeopata, chiromante e psichiatra che accolse il pittore all’uscita dall’ospedale psichiatrico di Saint-Paul-de-Mausole nel maggio 1990. C’è dell’altro e di più.

Ecco come Artaud, al di là dell’invito di Pierre Loeb (gallerista e piccolo editore) a visitare la mostra all’Orangerie, spiega cosa l’abbia spinto a scrivere su van Gogh: “Cosa testimonia l’autore di queste righe sempre pronto a vomitare la propria vita, e che pure si ostina a farlo? Quando si sono trascorsi nove anni in un manicomio, non c’è pittura né vita che tenga, e non so perché l’idea di scrivere qualcosa su van Gogh mi abbia affascinato.  Venuto fuori da una clausura di nove anni ho visto cadere davanti a me tutte le opere scritte o dipinte, solo van Gogh conserva il suo pregio”.

Nove anni d’internamento hanno fatto cadere tutto, la letteratura e l’arte e un’idea stessa di vita, solo van Gogh “conserva il suo pregio”. In cosa consiste questo pregio che ancora attrae un Antonin Artaud stanco? Ecco: “Van Gogh fa venire incontro a noi, sporgente dalla tela fissa, l’enigma puro, il puro enigma del fiore torturato, del paesaggio sciabolato, lacerato e strizzato da ogni lato dal suo pennello ubriacato”.  

 

2. Darsi il fastidio d’essere

L’opera d’Antonin Artaud non è un’opera se non nel senso di una ricerca disperata ed estrema di un senso, di uno scopo che ridia unità a corpo e spirito, essa gira tutta intorno a un grido di sofferenza, è grido essa stessa, né bella, né armoniosa, né patetica, ma senza dubbio vera. “Poète enragé de la verité”, questo il bel titolo ch’egli darà al Comte impensable de Lautréamont, “Poeta pazzo di verità”, un titolo che Artaud rivendica  per sé. Ora tornato dopo un internamento di 9 anni Antonin Artaud non può più attendere né un nuovo altrove (l’Oriente) né un aldilà (alchimia ed esoterismo), ha bisogno per vivere che il mondo cambi. Ed è a questo punto che la fredda mattina del 2 febbraio 1947 all’Orangerie, Antonin Artaud incontra Vincent van Gogh. Lo immaginiamo attraversare la sala con i quattro autoritratti di van Gogh.

“Vedo nell’ora in cui scrivo queste righe il volto rosso insanguinato del pittore venire verso di me in una muraglia di girasoli stramazzati, in un formidabile avvampare di faville giacinto opaco, e di pascoli lapislazzuli (…) Questo viso tutto spigoli, tagliato a mannaia, che sembra avanzare per divorarvi e poi nel momento in cui la stretta sta per richiudersi  si nota lo sguardo sospeso, girato dall’altro lato, che van Gogh, dunque, dipingendosi, non aveva mancato di analizzare, notare”

 

È la coscienza lucida e sempre al lavoro quella di Vincent van Gogh che conquista Artaud, una coscienza sempre al lavoro come la sua. Una coscienza al lavoro che sa come non si nasce da soli, e neppure si muore da soli. L’inizio e la fine della vicenda umana non si danno da sé, si ha a che fare con l’enigma primo e ultimo, il rapporto costitutivo con ciò che non sappiamo ma non conosciamo, un enigma, un mistero.

Di fronte alla lucidità di van Gogh che lavora, la psichiatria non è più che un consesso di gorilla loro stessi ossessionati e perseguitati, e che hanno, come palliativo agli stati più spaventosi dell’angoscia e del soffocamento umani, soltanto una terminologia ridicola, degno prodotto dei loro cervelli tarati. (…) Che cos’è un alienato autentico? È un uomo che ha preferito diventare pazzo, nel senso in cui lo si intende socialmente, piuttosto che venir meno a una certa idea superiore dell’onore umano. È così che la società ha fatto strangolare nei suoi manicomi tutti quelli di cui ha voluto sbarazzarsi o da cui ha voluto proteggersi, in quanto avevano rifiutato di farsi suoi complici in certe emerite porcherie. (…) Le cose vanno male perché la coscienza malata ha un interesse capitale in quest’epoca a non venir fuori dalla propria malattia. È così che una società tarata ha inventato la psichiatria per difendersi dalle investigazioni di certe menti superiori le cui facoltà divinatorie la infastidivano”.

Van Gogh, non si accontenta di esistere, scrive Artaud, van Gogh non “ha mai avuto paura della guerra per vivere, cioè per strappare il fatto di vivere all’idea di esistere, e tutto può esistere, certo, senza darsi il fastidio di essere”.

 

3. Incalzare l’infinito sino alle stelle

Sottraendo il caso di van  Gogh al discorso psichiatrico e alle sue pratiche, sottraendolo ad un discorso di semplice testimonianza, Artaud scarta di lato le esegesi critiche e cliniche per circoscrivere il vero campo di battaglia di Vincent (e di Antonin): la guerra al dualismo della metafisica, alla separazione tra spirito e carne, tra intenzione e atto. L’unità è andata in frantumi e il posto dell’io, la sua consistenza, sono da ritrovare. Artaud è alla ricerca di “un corpo che nessuna tempesta potrà più intaccare” così come van Gogh prova a sbrogliare la natura per ricrearla, ritrovarla “Mi sfamo sempre alla natura. Esagero, cambio talvolta l’intenzione; però, in definitiva, non invento mai l’intero quadro, lo trovo al contrario già fatto, ma da sbrogliarlo nella natura.” (lettera ottobre 1988 a Emile Bernard).

Van Gogh non è morto per uno stato di delirio proprio ma per essere stato corporalmente il campo di un problema attorno al quale, fin dalle origini, si dibatte lo spirito iniquo di questa umanità. Quello del predominio della carne sullo spirito, o del corpo sulla carne. O dello spirito  sull’uno e sull’altra. E dov’è in questo delirio il posto dell’io umano? Van Gogh cercò il suo per tutta la vita con un’energia e una determinazione strane, e non si è suicidato in un impeto di pazzia, nel panico di non farcela, invece ce l’aveva appena fatta e aveva scoperto cos’era e chi era, quando la coscienza generale della società, per punirlo di essersi strappato ad essa, lo suicidò.  (…) Van Gogh, si dice, a forza di cercare l’infinito ha finito col soffocarne. Non è vero. Van Gogh poteva trovare l’infinito se la coscienza bestiale della massa non avesse voluto appropriarsene e tenerselo stretto tra le cosce”.

E qui Artaud sottolinea qui un pervertimento quotidiano del desiderio di senso e di infinito, la sua riduzione al godimento in genere e soprattutto il godimento sessuale, questione di “cosce” e di “fiche cotte”, roba di erotomani. “Il povero van Gogh”, scrive, “era casto, casto come può esserlo un serafino o una vergine”.

Chiosa con una nota commovente Artaud: «Van Gogh voleva soprattutto raggiungere finalmente quell’infinito per il quale, egli dice, “ci si imbarca come su un treno verso una stella”» (qui il riferimento è a una lettera a Théo del luglio 1988). Una di quelle stelle rilucenti della Notte stellata esposta proprio a l’Orangerie.

 

4. La realtà soprattutto

Anche all’Orangerie, come nota Artaud i quadri come tutti i quadri di van Gogh sono di dimensione modeste, “tele da tre soldi”. Suicidato a soli 37 anni Vincent ha venduto in tutta la sua vita un solo quadro, eppure, come sottolinea Artaud nessuno è più pittore di lui. Per lui la pittura non è uno spunto per altro, van Gogh supera la pittura proprio perché vi si immerge totalmente momento dopo momento, giorno dopo giorno, come un attore del Teatro della crudeltà.

Questo è ciò che mi colpisce in van Gogh, il più pittore di tutti i pittori e che, senza andare oltre ciò che viene chiamato ed è pittura, senza uscire dal tubo, dal pennello, dall’inquadratura del motivo e della tela per ricorrere all’aneddoto, al racconto, al dramma, all’azione in immaginaria, alla bellezza intrinseca del soggetto e dell’oggetto, è riuscito ad  appassionare la natura e gli oggetti a tal punto che nemmeno i più favolosi racconti di Edgar Allan Poe, di Herman Melville, di Gérard de Nerval, di Achim von Armin o di Hoffmann, dicono di più sul piano psicologico e drammatico delle sue tele da tre soldi, tele quasi tutte, del resto, e come l’avesse fatto apposta, di dimensioni modeste (…) Credo che Gauguin pensasse che l’artista deve ricercare il simbolo, il mito, ingrandire le cose della vita sino al mito, mentre van Gogh pensava che bisogna dedurre il mito dalle cose più terra a terra della vita. E in questo, io penso che avesse maledettamente ragione. Perché la realtà è terribilmente superiore a ogni storia, a ogni favola, a ogni divinità, a ogni surrealtà”.

Perché van Gogh è stato il più veramente pittore tra i pittori, l’unico che non abbia voluto superare la pittura come mezzo rigoroso della sua opera e ambito rigoroso dei suoi mezzi. E l’unico, d’altra parte, assolutamente l’unico, che abbia assolutamente superato la pittura, l’atto inerte di rappresentare la natura, per far sgorgare, in questa rappresentazione esclusiva della natura, una forza rotatoria, un elemento strappato in pieno cuore”.

Van Gogh supera la pittura standoci dentro e solo grazie a una forza che riesce a strappare elementi del cuore e dell’enigma. Ecco come lo descrive Artaud:

Sotto la rappresentazione, ha fatto scaturire un’aria, e ha richiuso in essa un nerbo, che non sono nella natura, che sono di una natura e di un’aria più vere dell’aria e del nerbo della natura vera.                

(…) È solo un pittore van Gogh, e niente più, niente filosofia, né mistica, né rito, né psicologia o liturgia, niente storia, né letteratura o poesia, i suoi girasoli d’oro e di bronzo sono dipinti; sono dipinti come girasoli e nient’altro, ma per capire un girasole in natura, bisogna adesso rifarsi a van Gogh, così come per capire un temporale in natura, un cielo tempestoso.

(…) Van Gogh è pittore perché ha ricomposto la natura che egli ha come ritraspirato e sudato, fatto schizzare a fasci sulle sue tele, a sprazzi scrocchianti di colori, la secolare frantumazione di elementi, la spaventosa pressione elementare di apostrofi, di strie, di virgole e di sbarre”.

Nelle straordinarie pagine del primo progetto di Post scriptum di Van Gogh il suicidato della società, steso intorno al 15 febbraio 1947, Artaud scrive pagine bellissime. Eccone alcune

Il caffè di Arles nella notte è la restituzione materiale autentica della visione di un bambino che non è ancora giunto all’età della coscienza, cioè della sconcezza”.

Van Gogh non abbellisce la vita, ne fa un’altra, puramente e semplicemente un’altra”.

E un augurio per lui e per noi: “Che la vita diventi un giorno bella quanto una semplice tela di van Gogh e per me basterà”.


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