Attivismo civico & Terzo settore

Educare al fundraising, oggi

di Elena Zanella

Mi capita a volte di fermarmi a pensare a cosa posso dare di più nello svolgere il mio lavoro. Succede che nel caos della vita quotidiana, quando il fermento è tanto e c’è poco tempo per riflettere, si perdano le sfumature che rendono quanto fai diverso.

Mi accorgo di avere una grande responsabilità perché nelle strade che suggerisco di adottare rispetto ad altre, a volte tutte ugualmente percorribili, sta la differenza del fare bene o del fare meglio: una differenza che sembra non esserci in apparenza ma che c’è e va fatta emergere.

Nel confrontrami con i gruppi di lavoro, in aula o all’interno di un’organizzazione, non finisco di stupirmi di quanta voglia ci sia di apprendere; di quanto entusiasmo sia magmatico e di quanto questo entusiasmo abbia voglia di esprimersi.

Vivo la necessità di non perdere di vista l’essenza di quel che faccio, mantenendo vigile l’attenzione verso questo obiettivo e contribuendo, in questo modo e nel mio piccolo, a migliorare il modo di fare fundraising delle persone e delle organizzazioni con le quali mi confronto.

Quando mi fermo a pensare, c’è tutto questo e molto di più.

In particolare, c’è una cosa che davo per scontata ma che nel confronto mi risulta perfettamente chiaro il non esserlo: non è più sufficiente formare al fundraising. Bisogna fare un passo oltre: bisogna cominciare con l’educare al fundraising.

Detto in altri termini, non basta più “fornire” la cassetta degli attrezzi per fare, come si è soliti dire, occorre dare le chiavi di lettura per “comprendere come e perché” fare.

Occorre quindi forse fare un passo indietro perché educare è antecedente al formare.

Sta proprio qui la differenza: nel far scattare il meccanismo mentale che permette di capire in che modo fare la differenza. Da qui, l’impatto sull’efficacia è direttamente proporzionale.

Chi, come me, forma e fa consulenza nel fundraising, credo – e spero – viva una medesima sensazione: ovvero, la tensione creativa continua che porta a pensare e ad analizzare ogni singolo contributo, affinché risulti ragionevole, armonico ed efficace rispetto agli obiettivi. E questo, per quanto mi riguarda, passa necessariamente dal sedermi al fianco dell’organizzazione e analizzare ogni singolo passaggio fatto o da fare, in modo concertato, senza dimenticare che l’abitudine alla lettura dei segnali potrebbe farmi arrivare immediatamente alla soluzione finendo con il perdere di vista l’obiettivo: la comprensione analitica del processo, unico modo per mettere in luce valenze positive e prevenire, per quanto possibile, eventuali fallimenti.

L’elenco delle cose che si possono e non si possono fare lo conosciamo tutti: basta aprire un libro o digitare su Google. Diverso è il perché e il modo in cui decido di fare una cosa o di non farla.

Così, almeno, mi pare sia. O no… (?)


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