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Il sociale a testa in giù

di Maria Laura Conte

Che sia una ferita, lo avverti appena esci di casa per una delle rare attività permesse: intravedi un altro essere umano che ti cammina incontro, cominci a spostarti su un altro binario, per mantenere almeno due metri tra te e lui, meglio tre. Abbassi pure la testa, con un movimento involontario, per riparare fiato e sguardo, come se anche questo potesse contagiare. Ecco la “distanza sociale”, i due macigni che segnano il passo di questo tempo. L’altro/l’altra può costituire pericolo per te e viceversa, quindi alla larga.

In particolare è nell’aggettivo “sociale” che restiamo impigliati, noi e la fitta trama di relazioni di cui siamo fatti. O eravamo? Il New York Times ha usato recentemente un’espressione feroce per descrivere come ci stiamo trasformando, in tuta nelle nostre case: “The less you need others, the safer and better off you are”: meno hai bisogno degli altri, più sicuro e meglio stai. Che può intendersi in scala diversa: sai farti il pane o tagliarti i capelli da solo? Allora sei “safe”, al sicuro; ma può tradursi anche in un elogio dell’ego autosufficiente.

Ma poiché le parole descrivono fatti, impongono (norme come in questo caso), ma anche anticipano e danno forma al reale, qualcuno comincia a denunciare la minaccia celata in questa espressione-slogan in questo tempo pandemico, “distanza sociale”, e propone di ritirarla dalle piazze, per sostituirla con altre più “solidali”.

Tra questi l’Organizzazione Mondiale della Sanità che, pochi giorni fa ha annunciato che cambierà narrativa: non parlerà più di distanza sociale, ma di distanza fisica, perché lo scopo è di mettere in sicurezza le persone senza attentare al valore della “prossimità” solidale, quindi puntando a mantenere alto il livello di connessione tra di noi.

Perché anche la “compagnia” è un salvavita. Lo hanno scritto degli scienziati, non solo dei poeti: tra questi Julianne Holt-Lunstad (published research) che avrebbe dimostrato che le persone con legami sociali più deboli hanno il 50% di possibilità in più di morire prima di chi è più “sociale”. Essere poveri di aperture all’altro mette a rischio la nostra vita, quasi come fumare un pacchetto di sigarette al giorno. Al netto di una sana dose di scetticismo verso certe ricerche, resta affascinante il dato emergente per cui se ci lasciano a noi stessi, soli, rischiamo la pelle.

Ed è poi quello che approccia da un altro versante Branko Milanovic, lo studioso delle diseguaglianze, quando in un pezzo su Foreign Affairs dei giorni scorsi diceva che se stiamo scivolando verso il punto in cui i governi devono usare le forze dell’ordine per impedire che la gente esca o si ribelli, forse siamo sull’orlo di una disgregazione delle nostre società. Milanovic parla proprio di “collasso sociale”. Di qui il suo auspicio: che la politica economica prevenga la “distanza sociale” disgregante, anzi di più, che si impegni a mantenere forti i legami sociali, perché resistano alla straordinaria pressione a cui sono sottoposti.

Infine l’ultimo esperimento linguistico-fisico: se si prova a cambiare prospettiva nell’accostare queste parole entrate in loop in questi giorni, mettendosi quasi a testa in giù, ecco che si intravede una prateria nuova. Si apre per chi di sociale, legami sociali, reti e solidarietà si occupa per passione e per mestiere. Ma c’è da lavorarci fianco a fianco.


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