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La Grande “Beautification”

di Maria Laura Conte

The Great Beautification, il grande abbellimento: il titolo scelto dal New York Times per un reportage sulla fase 2 in Italia ha qualcosa di attraente. I cronisti del quotidiano americano hanno rintracciato in signore di una certa età, dai 50 in su, le voci adeguate a documentare il ritmo della felicità di un paese in ripresa dopo la pandemia. Una felicità (frivola?) che si materializzava dal parrucchiere e dall’estetista, riaperti finalmente, nella banalità di un taglio, una piega o un colore rinfrescato. Hanno raccontato la soddisfazione di chi in quarantena non poteva passare davanti allo specchio senza una smorfia di orrore, abbrutito e sciatto, ciabattante per la casa, e infine ha esorcizzato paura e isolamento nel rito del taglio dei capelli. Beautification, il farsi belli, è stato un processo vivace nei giorni scorsi, tempestato pure dai selfie di sindaci, manager, cantanti, intellettuali di punta immortalatisi sulla poltrona del loro barbiere. Sul volto lo stesso tripudio dei bambini in giostra al luna park.

Che sproporzione, si potrebbe pensare, tra il rischio di finire in terapia intensiva e il ritocco alle mèches platino.

La tolettatura come terapia? Come risposta al bisogno di consolazione? O solo come voglia di ritrovare la nostra faccia di prima: prima della (ri)crescita, della reclusione forzata, prima della paura. Come desiderio di tornare nel campo visivo degli altri nella forma migliore di noi.

Non si scomoderà qui per l’ennesima volta quella frase abusata di Dostoevskij, che mette in relazione bellezza e salvezza, ma Robert De Niro sì, che dalla prima pagina di Repubblica pochi giorni fa sosteneva autorevole: “Ci può salvare solo la bellezza”. Dopo settimane trascorse trasferendoci dal letto al computer per lo smartworking e viceversa, magari in pigiama fino alla pausa pranzo, la bellezza chiede la rivincita. Che bellezza? Che forza addirittura salvifica potrebbe esercitare la beautification?

La bellezza non è mai stata qualcosa di assoluto e immutabile, ha scritto Umberto Eco, che si è chinato su come artisti e scrittori ci hanno trasmesso nel corso della storia il loro modo di concepirla. Questa categoria ha assunto volti diversi a seconda del periodo e del paese, fino ad arrivare a noi, attori dell’era-Covid.

Il bello all’inizio è anche il buono (e del resto “bello” deriva da “bonus” se si vuol fare il gioco delle etimologie) e il vero; per i greci bello è l’atleta, il corpo giovane e armonioso o un’architettura pulita, un’agorà pensata in posizione strategica. Nel 1400 bella è la Venere morbida e sensuale. Nel 1600 con Rubens si impongono forme opulente, nel 1800 arriva Canova con le sue Grazie di pura perfezione, dinamismo ed eleganza. Più tardi il cubismo scompone il bello, lo fa a pezzi costringendoci a un’apertura nuova della mente, oltre che degli occhi. E poi avanti, con la rappresentazione dei corpi e della natura sempre più attraversati dalle tensioni nervose e complesse che feriscono l’umano postmoderno. Ci si può perdere dentro all’indagine sul bello, e non è male: se per uno Stendhal bellezza equivale a promessa di felicità, per un Francis Scott Fitzgerald ciò che è bello ha in sé una componente oscura: “Non c’è bellezza senza malinconia, e non c’è malinconia senza la cognizione che tutto è destinato ad andare in polvere”.

Con quel titolo il quotidiano americano ha risvegliato la memoria di una ricerca che ha radici nella notte dei tempi. Ricerca ancora non risolta, che rimane attuale e avvicina Fidia a noi dopo la strage di vite e di certezze da parte del virus.

Noi che nella bruttezza non ci vorremmo più stare, che sia addosso o intorno a noi. Nelle città in cui camminiamo, negli scorci di natura che ora pretendiamo con più decisione di difendere, o nelle trame di relazioni che torniamo a tessere da zero, ma di stoffa più resistente.

Noi che preferiamo i diamanti al carbone, per stare al paragone di Vladimir Solov'ëv. Guardate il carbone e il diamante, è l’invito del pensatore russo, le loro componenti chimiche sono identiche. Eppure il carbone è brutto e il diamante è bello, perché? Perché il carbone richiama tutta l'attenzione a se stesso, mentre il diamante è trapassato dal sole e da tutta la luce: “Attraverso di esso si vede qualche altra cosa, superiore alla pietra, che la fa bella”.

Il carbone e il diamante chimicamente sono lo stesso. Perché il carbone è brutto e il diamante è bello? Perché il carbone fissa tutta l'attenzione a se stesso, mentre nel diamante si vede il sole e tutta la luce: attraverso di esso si vede qualche altra cosa, superiore alla pietra, che la fa bella

Vladimir Solov’ëv

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