Media, Arte, Cultura

Capitani in bilico

di Maria Laura Conte

“Da quanto tempo è in viaggio? Sono in viaggio da sempre. Non si può stare fermi in un posto (…)
E ha cercato di prepararsi? No (…) La gente si preparava sempre al domani. A me sembrava assurdo. Il domani non si stava certo preparando per loro. Non sapeva neppure che esistessero”.

È quest’ultima frase di ghiaccio di McCarthy che Stefano Massini, qualche giorno fa su Repubblica, usava per spiegare la sindrome di cui soffre, insieme a molti di noi, dopo la pandemia: la sindrome del bilico, parola che pure nel suono richiama l’instabilità che significa. La sindrome a cui dà il nome consisterebbe nella percezione di trovarsi in una posizione senza agganci saldi, da cui si potrebbe precipitare. Quel punto di sofferenza che viene dallo scoprire che il domani non sa di noi, e noi non sappiamo dove andremo a schiantarci. Eravamo gli eserciti di outlook, abili in programmazione, e nel giro di ore, ci siamo ritrovati “bilicanti”.

Massini è in buona compagnia: pur senza il suo guizzo, molti articoli della stampa internazionale hanno riflettuto sulla nostra frenata in corsa. Un fondo del New York Times usava addirittura l’espressione “in bilico” riferendosi al virus che sta come sull’orlo, pronto a diventare molto peggio di quel che era previsto, trascinandoci all’inferno. O il Time dedicava spazio alla paura causata dall’assenza di controllo della situazione, e la Harvard Business Review analizzava il “disconfort” che si muta in ansia da “domani” saltati. Per non citare le testate giornalistiche che si sono sperticate a suggerire liste di trucchi per resistere alla scomparsa di certezza, di futuro.

Un male che morde la parte di noi strutturata per proiettarci in avanti, per il movimento verso una destinazione. La nostra natura fatta per “la strada”. Quella che dà il titolo al romanzo di McCarthy, dal quale è tratta la frase scelta in testa: “Da quanto tempo è in viaggio? Da sempre”. Pure noi siamo, con i due protagonisti, su quella strada, in quel movimento verso una meta che tiene in vita: hanno fame, e camminano. Cercano salvezza, e camminano. Insieme. Quel movimento verso un traguardo, verso un “domani”, è in sé trasfusione vitale. Se ce lo tolgono, rischiamo di consumare tempo a vuoto.

Un po’ come i ragazzi di Kerouac, che si mettono sulla strada, on the road, e attraversano l’America, sballandosi di droghe e mangiando asfalto. Quando incontrano uno che gli chiede: “Voi ragazzi andate da qualche parte o soltanto dove capita?”, loro non capiscono la domanda. Come se la pura idea di meta non rientrasse nel loro orizzonte. Vanno di fretta.

Perché, forse, un andare non vale l’altro. Ci sono modi diversi di procedere, ci sono i vagabondi e i capitani di navi a vela. Come il giovane che passa la linea d’ombra di Conrad.

Stufo dello “spreco di giorni” in cui si era invischiato, il giovane ufficiale decide di “sbaraccare la sua comoda cuccetta, per sfuggire alla minaccia di vuotezza”. Accetta l’incarico di capitano e parte. Ma quando tutto doveva prendere la svolta avventurosa del movimento, il vento si spegne. Lockdown. La nave si pianta come una roccia. Finché vince l’istinto del navigante. Il giovane risale sul ponte della nave, Conrad scrive proprio che torna ad affrontare la realtà: sta alla prova del buio, dell’epidemia che aveva trasformato i marinai in spettri, della paura di affondare.

Torna il vento, la nave riparte ed entra in porto. Quando lui scende, tutti sulla terra ferma gli sembrano giovani arzilli, mentre lui si sente vecchio. Ma non domato, né consumato: “La vita a media andatura, non tutti ne sono capaci”, dice con cattiveria.

L’essere restato in bilico tra l’attesa del vento e l'angoscia di precipitare in fondo al mare, l’essersi pure arreso all’impossibilità di fare programmi nella bonaccia, non sono stati un di meno.

Lo hanno portato in salvo, là dove teneva puntato il timone.

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Born to Be Wild, Steppenwolf

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