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Media, Arte, Cultura

Apologia dell’abbraccio

di Maria Laura Conte

Scivoleranno fuori dalla storia. Gli abbracci, i baci, le strette di mano, gesti ordinari del nostro vivere insieme, sarebbero in via di estinzione, dinosauri dellera pre-Covid. Almeno secondo la profezia di Adrian Wooldridge che, sull’Economist, ci spiega che se ci stavamo integrando con gli open space come arredi perfetti, senza pareti tra di noi, ovunque vicini, sempre più vicini (perfino accomodati al ristorante al tavolo con degli sconosciuti), ebbene ora il quadro è mutato. Quella promiscuità ha subito una battuta di arresto: le distanza si sono imposte con furore e ci ritroviamo separati, almeno a un sedile di distanza sui treni o a un metro in coda dal panettiere.

Farewell, addio abbracci e strette di mano, addio baci di saluto amichevole: potremo esprimere il piacere di ritrovarci con un’alzata di sopracciglio o interagire intercettando lo sguardo altrui, anche attraverso il filtro della webcam, abile per altro nell’evidenziare il lato peggiore di noi.

Il contatto fisico è bandito. E non manifesta molta nostalgia in questa sua analisi Wooldridge, come se obbedisse a un destino evolutivo irrevocabile.

Eppure ci doveva pur essere qualcosa di speciale in questi gesti, se sono resistiti alla consunzione dei secoli. Per quanto minimali, condensavano significati articolati, giunti a noi dall’età dei barbari, attraverso le generazioni: l’ammissione di un “vengo in pace”, non nascondo armi nella mia mano e quindi la apro verso di te; desidero incontrarti, trasferirti energia; apro le braccia a te, divento vulnerabile, ma mi fido, ed è reciproco.

Tranquilli, ci suggerisce l’autore, visto che siamo molto social, inventeremo dei metodi alternativi. I cinesi ci hanno provato con il saluto dei piedi. I francesi più chic starebbero testando il namasté, unendo i palmi delle mani al petto e chinando il capo. Ma sono modalità avvertite come straniere, ancora.

Quindi la distanza avrà la meglio sull’abbraccio? Che ci sembrerà presto un’abitudine disgustosa e incivile come denuncia l’inglese?

Piuttosto sembra che la sua previsione non faccia i conti fino in fondo con la storia. Con lo stupore di Erasmo, per esempio, che arrivando a Londra da Parigi, nel 1499, si stupiva di quanti baci si usassero: “Da qualsiasi parte ti volgi, è tutto pieno di baci” di accoglienza, congedo, arrivederci, scriveva a un amico lontano. Ma, attenzione, in un altro passaggio epistolare, specificava Erasmo che l’ambiente intorno era “healthy”, sano, e popolato di intellettuali e umanisti. Non cavernicoli.

La letteratura offre infinite tracce di questo bisogno di scambio, di contatto tra persone, non riducibile a un dettaglio culturale che una pandemia possa rimuovere nel giro di qualche settimana. Abbiamo dovuto sospendere gli abbracci e drogarci di “virtuale”, spinto al massimo delle sue possibilità, nelle videoconferenze che sanno tenere in piedi le reti di rapporti, ma presto generano noia.

Non sarà un caso se Virginia Satir, psicoterapeuta americana, è diventata famosa non tanto per il suo saggio “Making contact”, quanto per un calcolo che mette in bilico l’articolo di Woolbridge: ogni giorno abbiamo bisogno di quattro abbracci per sopravvivere, di otto per mantenerci, di dodici per crescere.

Attorno a quell’otto c’è una particolare corrispondenza: anche il pioniere della neuroeconomia, Paul Zak, sosteneva che servono almeno otto abbracci per produrre l’ossitocina capace di sviluppare empatia, buon umore e positività nelle persone, ma anche di accrescere la produttività dei dipendenti di un’impresa. Quindi di aumentarne il profitto.

https://twitter.com/nwulls/status/1276497752424353794?s=20

Così con neuroeconomisti e psichiatri si esce dal campo delle frasi da cioccolatini, per entrare in quello dell’essenziale: siamo costituiti nel DNA di relazioni che passano dalle menti e dai corpi. Corpi che cerchiamo di mettere in sicurezza, tenendoci alla larga uno dall’altro se c’è un virus in zona. Ma questa non è per forza né per sempre un’opzione salutare. La rinuncia ha un prezzo alto. Ha a che fare con la sfera degli affetti privati, ma ha anche una valenza pubblica, impatta sulla fiducia, su come il nostro io entra in relazione con il mondo intorno.

È una questione di dono, l'abbraccio, perciò non può uscire di scena.


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