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Un volto esigente

di Maria Laura Conte

Tante maschere incontrerai e pochi volti: scriveva così Pirandello un secolo fa ormai, quasi una minaccia, e non aveva idea di che profezia stesse lanciando, disegnando in anticipo scorci del paesaggio di oggi: circolano tante maschere, quantI siamo noi, mentre i volti stanno coperti fino al naso (se nel frattempo abbiamo imparato come indossarle) .

Ma per quanto nascosti, traditi dal rivestimento, quei volti non perdono in potenza. Anzi ne acquistano in virtù della nostalgia maturata. Ci manca il volto del medico che ci spiega la diagnosi, della panettiera stanca, del professore e del vicino di banco, perfino del vigile che ci dà la multa, o del mendicante cui giravamo le spalle.

Ci mancano i volti anche se sono impegnativi, o forse è proprio per questo.

Perché il volto umano è esigente.

Lo sanno gli studiosi di linguistica che nei secoli si sono chinati sul patrimonio genetico di questa parola. Tra questi Isidoro di Siviglia che, lavorando sulla differenza tra parole cugine, si è soffermato sul binomio faccia e volto: mentre la prima (facies) si riferisce a ciò che è aspetto fisico, immutabile, come somma di dettagli fisici, la seconda (vultus) rimanda alla sfera del mutevole e cangiante, che si adatta a seconda dello stato d'animo modo laetus, modo tristis, e quindi che ora può apparire lieto, ora triste.

Il volto umano è esigente

M. Robinson

Se la faccia quella è e quella rimane, il volto è trasparente di sentimenti, si incarica di lasciare intuire, pur tentando a volte di dissimularlo, il dinamismo psicologico della persona, il suo stato emotivo mutabilis, mutevole, sulla spinta di ciò che lo investe.

E del resto Cicerone lo aveva già stabilito quando sentenziò imago animi vultus, che il volto è lo specchio dell’anima. E sempre l’arpinate, nell’elencare ciò che distingue l’uomo dalle bestie, era approdato qui: prima della celeritas mentis, la rapidità del pensiero, prima ancora della posizione eretta che permette all’uomo di “contemplare la sua origine divina”, è il volto che costituisce il vero distintivo umano, perché capace di lasciar intravedere la profondità, le combinazioni di passioni che lo increspano e nutrono il carattere.

Pure l’avventura etimologica di questa parola ha una trama complessa. Si dividono gli esperti: per qualcuno viene da volvo-volgo, il verbo che in latino significa muoversi, volgere, spostarsi. Volto si potrebbe chiamare così per il movimento e le rotazioni oculari, oppure in riferimento alla “volubilità” delle emozioni che sa manifestare in modo unico.

Per altri invece deriverebbe dal participio passato di volere, voluto, ed evocherebbe il campo della volontà, del desiderio. Ambito al quale alla fine giungerebbe anche un’altra linea interpretativa: vultus come derivato dalla radice indoeuropea del verbo vedere: volto è ciò che sta davanti per essere visto, ma anche espressione del fatto che, se vedo una cosa, posso arrivare a volerla.

E tutto questo mutevole muoversi-vedere-volere-desiderare si sarebbe stratificato sui nostri visi. Che son diventati appunto così esigenti da non poter lasciare indifferenti. Né chi guarda, né chi è guardato.

Perché se il volto è lo specchio dell’anima, i volti a loro volta si trascinano inconsapevoli in un gioco di specchi, di riflessi: ogni volto umano che incroci esige qualcosa da te, scrive l’americana Marylinne Robinson, perché non puoi fare a meno di capire la sua unicità, il suo coraggio e la sua solitudine.

Non puoi sottrarti, proprio come quando qualcuno chiama te, ma proprio te, e ti invita a visitare la sua casa. A entrare in una storia anche solo per un tratto breve. Puoi certo far finta di non sentire, abbassare il capo e tirare dritto. Ma con il sospetto di perderti qualcosa.

Un volto è una chiamata (una responsabilità?). Può suonare come un invito a una festa o un pericolo, in ogni caso apre a una possibilità quindi a un rischio.

Non quel tipo di rischio che cerca chi ha una dipendenza dall’adrenalina del gioco d’azzardo o della corsa in moto senza casco. Ma quello di chi avverte il fascino per la novità che può venire da un incontro nuovo e perciò accetta di mettere alla prova le certezze che ha accumulato nel tempo, o che ha ricevuto in eredità, e decide che può valere la pena uscire dalla zona comfort e andare incontro agli altri. Entrare nel gioco dei riflessi dei volti, e verificare nell'incontro nuovi modi di investire le proprie risorse, di metterle a disposizione. Delle reti di rapporti, degli affetti, del lavoro, degli affari. Della politica.

Certo non in modo anarchico, tanto meno incosciente, ma in modo libero sì, e gratuito.

Potrebbe condurre a una delusione? Certo, nonostante i programmi evoluti di risk assessment, la valutazione preventiva non permette di allontanarla del tutto dalla scena.

Ma potrebbe portare a un bene, per sé e per gli altri. Se c'è anche una fragilissima possibilità, perché voltarsi da un'altra parte?


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