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Nobili ribelli

di Maria Laura Conte

È una reazione. Una risposta a uno stato di costrizione esagerata. Il tappo di un vino frizzante che non tiene più e vola per aria. Può presentarsi armata, bellicosa e capace di azioni ardite oppure passiva, “solo” disobbediente.

È ribellione, una parola che al solo pronunciarla attiva il ricordo di miti (Sisifo?), di storia e cronaca. Perché c’entra con la parte originaria dell’io, la più resistente. Quella che non può mai accettare di essere negata o oppressa da vincoli irrazionali. La parte libera.

In latino è rebellio, deriva da rebellare che significa letteralmente riavviare la guerra (bellum), riprendere le armi contro qualcuno, come per Tacito (rebellionem parare, preparare la guerra) o Livio, che ne fa un orizzonte: rebellionem spectare, avere in vista la rivolta. Ma non è solo militare il suo patrimonio semantico: Plinio usa questo verbo anche per dire ricominciare, rinascere.

Non è la ribellione che è nobile, ma quello che esige

A. Camus

E qui si torna al punto di partenza: c’entra con un principio vitale.

Un movimento come quello di chi, spinto dal mare, risale dal fondo verso la superficie e finalmente trova ossigeno e respira.

Lo stesso che desidera chi, alla fine di un 2020 unforgettable – indimenticabile, come ha titolato il New York Times – non vuole arrendersi al pessimismo del “non ne usciremo mai”, né alla delega di responsabilità, né alla tristezza, e punta ora a una nuova prospettiva: non mi arrendo, mi ribello!

Non contro chi governa, i comitati di esperti sanitari e tecnici, ma contro l’indugiare, l’abbandonarsi a contemplare le macerie più che a lavorare su ciò ha retto all’urto e ha recuperato valore.

Per un gioco di scambi tra segno e senso, questa ribellione è vicina a un’altra parola, insurrezione, dal latino in-surgo, insorgo, mi rivolto, che a sua volta conduce a un altro termine che ha la stessa radice, ma è ancora più dirompente: resurrezione, rinascita.

Diversi fili tengono insieme queste parole: uno sfondo bellico, l’idea di lotta, di fatica per tener testa a un nemico, ma anche il gesto dell’alzarsi per stare in piedi (surgo), con la schiena dritta e pronti a uno scatto.

Non è difficile immaginare questa mossa: mi ribello cioè non subisco le circostanze, piuttosto le guardo e ci sto in mezzo, in piedi. Con la schiena dritta e la fronte alta, come vuole l’iconografia alla quale molti artisti (uno su tutti, Piero della Francesca) hanno fatto ricorso per rendere visibile la dignità degli uomini e delle donne.

Quando una persona si ribella a un’imposizione o alla stessa resa, dice di no. Ma quel no è anche un sì: ribellarsi non equivale a ritirarsi o abbandonare il campo. Proprio il contrario.

Il ribelle traccia un confine, che non intende valicare: di qua sta quello che ha più valore, che è irrinunciabile come la ragione per cui vivere; di là quello che può essere abbandonato, concesso. Di qua quello che garantisce significato alle stagioni più critiche e tutela le fondamenta su cui costruire il rilancio; di là quello che sembrava necessario, invece non lo era.

Di qua c’è la solidarietà con gli altri uomini e donne, con cui condivide il suo destino. Anzi qualcosa di ancor più radicale: la fratellanza, che permette alle persone uguali per diritti e doveri, di essere diverse, uniche. Di là l’indifferenza.

Ribelli così arrivano ovunque perché – scriverebbe Plinio – sanno rinascere.


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