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Parole stanche, parole in ferie

di Maria Laura Conte

Hanno bisogno di vacanza anche loro, le parole, di una pausa per tornare poi al lavoro con una tempra fresca.

Anche loro escono logorate da mesi complicati: hanno fatto gli straordinari per cercare di dire la complessità che abita intorno e dentro di noi, si sono sperticate per catturare la normalità nuova che è andata sostituendo quella vecchia e più confortevole, almeno per come, nostalgici, la ricordiamo. Si sono caricate della nostra fatica, di un lungo autunno-inverno mosso dalle onde pandemiche, e ora chiedono tregua.Alcune si sono consumate e sono pronunciate tanto automatiche quanto noiose: la gamma che va da “sono stanco” a “mi sento esausto”, per approdare a “aspetto-con-ansia-le-ferie”, non si può più sentire mentre esce dalla nostra bocca.

“Non reggo più la maschera”, parole schermo si sono consunte, come fosse la maschera a essere di troppo, e non ciò da cui ci difende. Altre sono diventate – ad agosto poi – nevrasteniche, cariche come mine pronte a esplodere. Quanto più cresce la tensione nell’aria, tanto più le sillabe che ci sganciamo a vicenda rischiano di fare danni, come armi che in un istante producono macerie, pesanti poi da smaltire. Sono parole che, giusto un attimo prima della deflagrazione, andrebbero disinnescate da parole di cura. “Non mi ascolti quando parlo!”, “non ti reggo più” sono parole-doppie, accuse che contengono preghiere: dimmi che mi capisci, dammi conferme, ti prego.

Si sono imbolsite le parole della vita pubblica, quelle della politica (bagarre, ultimatum, svolta decisiva, mi dimetto se, dittatura sanitaria…), ma anche quelle private, nelle stanze intime o nelle chat, dove per altro più sono stufe, più seminano equivoci.

When you have nothing to say, say nothing

Quando non hai nulla da dire, non dire nulla

C. Caleb Colton

Perciò dovremmo concedere un po’ di ferie anche a loro: un bel silenzio per recuperarle più sane, una vacanza per trovarne (inventarne?) di nuove.

Di novità e imprevisti abbiamo sempre bisogno noi, e non di meno le nostre parole. Se diventano ovvie, ci tradiscono. Ovvie (da ob – viam, per strada) sono quelle a cui ricorriamo senza averle scelte, che raccattiamo così, un po’ a caso, per strada, dove altri le hanno usate e mollate. Cosi non riescono a corrisponderci in pieno, ci omologano, ne usciamo tutti uguali. Che orrore. Perché non solo non sanno trasmettere la verità di noi, cioè la nostra singolarità, ma non ci aiutano neppure a formulare un pensiero originale.

È esperienza quotidiana: le parole comunicano il nostro pensiero, ma anche lo generano. Se sono banali, generano pensieri altrettanto banali, coccolano il nulla. Si potrebbe obiettare: beh, se usiamo tutti le stesse parole, magari diventiamo più comprensibili, quindi ci potremmo intendere meglio. Ecco il trabocchetto: è come optare per un bicchiere di plastica invece che per un calice di cristallo per un buon rosso. Un po’ come capita a “maestro” che è scalzato da “influencer”, o a “discepolo” che è schiacciato da “follower”, o uno “stupore” che è diventato un “adoo-ro” ripetuto come intercalare scemo.

Se non abbiamo cose vere, nuove, rivoluzionarie da proporre, non avremo neppure parole adeguate per trasmetterle; e viceversa. E allora, meglio il silenzio, per non incorrere nella chiacchiera

I. Dionigi

Le cose rivoluzionarie che ci sono capitate (le res novae, dicevano i latini) e ci hanno lasciato un po’ storditi, hanno bisogno di un discorso nuovo, di parole inaudite. Un certo Grice aveva individuato negli anni 70 quattro massime conversazionali per un discorso capace di instaurare buone relazioni. La prima è la quantità: non dire troppo né troppo poco; segue la qualità, quasi sinonimo di sincerità: trova il modo di dire ciò che pensi; la terza è la relazione: ci deve essere pertinenza in quel che dici, stai ai fatti; infine il modo: sii chiaro, non parlare per enigmi o sottintesi.

Ecco, una vacanza così “ecologica” per le nostre parole, tra silenzio (nostro) e ascolto (degli altri), al ritmo di quattro semplici massime, potrebbe giovare alle nostre parole, quindi a noi.

Potremmo ritrovarci più giovani.


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