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Giovane impresa, mon amour!

di Luigi Maruzzi

Le fondazioni di origine bancaria (in Italia sono 88) forniscono un sostegno economico a decine di migliaia di iniziative ogni anno. Questi soggetti (che chiamiamo “filantropici”) operano con un vasto raggio d’azione per quanto riguarda i settori d’intervento e le tipologie di enti beneficiari. Ma forse molti non sanno che sono previsti diversi impedimenti (veri e propri divieti) che limitano di fatto la loro operatività. Per esempio, non possono concedere contributi in favore di progetti proposti da imprese.

La ragione che ha indotto il legislatore ad introdurre tale divieto risulta in parte intuibile (non bisogna agevolare chi persegue il lucro) e può trovare a proprio supporto una serie  di solide argomentazioni (come quelle basate sul rischio di falsare la concorrenza con provvidenze paragonabili ai cd  “aiuti di Stato”). Peccato però che tale giustificabile impianto di regole finisca per scontrarsi con le esigenze che emergono dalle mutate condizioni economiche del Paese (e dell’Europa intera). Per non parlare,  poi, delle urgenze sociali che rendono paradossale perfino la più logica delle leggi che siano state approvate dal nostro Parlamento.

Entrando nel merito della problematica possiamo partire da quello che avviene oggi nell’ambito dell’impresa culturale. Se ne parla molto, ci sono già delle esperienze significative da studiare e tutti la indicano come un formidabile veicolo di sviluppo,  uno dei sistemi per rallentare la fuga dei cervelli,  la struttura più idonea per affrancare la cultura da perduranti situazioni di  dipendenza economica (alimentata da sussidi pubblici o contributi di matrice filantropica). Insomma,  per le fondazioni bancarie l’idea è affascinante ma non può essere sostenuta nella sua forma nativa: deve subire un restyling per poter risultare ammissibile. Il che significa una cosa sola: chi voglia costituire un’impresa culturale non può scegliere la veste giuridica di impresa più tipica (società di capitali) ma deve accontentarsi di operare come associazione. Teoricamente sarebbero disponibili anche altre opzioni (impresa sociale, cooperativa) che tuttavia presentano controindicazioni talmente impattanti da risultare assolutamente disincentivanti in termini di vincoli e di assenza di agevolazioni fiscali (nota 1). Anche la finestra aperta dal “decreto Crescita” sulle start up non può essere sfruttata in quanto legittimerebbe le sole realtà a vocazione sociale.

Allora cosa si fa? C’è una soluzione per bypassare ‘legittimamente’ il divieto?  Purtroppo, debbo rispondere negativamente e aggiungere un elemento di forte preoccupazione per quegli enti che – nel  tentativo di dimostrare una parvenza di eleggibilità – intraprendono strade che, sotto il profilo fiscale, portano alla perdita della qualifica di ente non commerciale. Ora, si potrebbe lungamente dibattere sulla differenza sostanziale tra commercialità e lucratività ma abbiamo due certezze a disposizione: da un lato, si tratta di parenti stretti; dall’altro, è arduo sostenere che lo svolgimento di attività commerciali possa aver luogo in assenza di un’entità imprenditoriale.

Di fronte a questo esito dovrei apprezzare l’iniziativa promossa dall’attuale Governo per un iter partecipato di riforma del nonprofit sotto il profilo normativo. Ma purtroppo non posso lodarla completamente. Prima di tutto perché parte da una rappresentazione non proprio esaltante del settore: come cittadino non mi risulta facile accettare che “occorre (…) sgomberare il campo da una visione idilliaca del mondo del privato sociale, non  ignorando che anche in questo ambito agiscono soggetti non sempre trasparenti che talvolta usufruiscono di benefici o attuano forme di concorrenza utilizzando spregiudicatamente la forma associativa per aggirare obblighi di legge”.  In secondo luogo, ho l’impressione che non si voglia aggredire il nucleo della questione preferendo incidere sulla sua superficie (nota 2).

Per l’erogatore che osserva quotidianamente le complesse forme con cui si sviluppano le iniziative caritatevoli e gli investimenti sociali, subentra lo sconforto nell’immaginare che fra qualche anno potrebbe trovarsi di fronte gli attuali giovani “aspiranti imprenditori culturali” in veste di “soggetti svantaggiati” da inserire negli organici delle imprese sociali. Allora sì che potrebbero beneficiare dei finanziamenti fondazionali. È questo lo scenario che vogliamo?

 

NOTE

(1) Si veda A.Rebaglio, “Le fondazioni bancarie e il sostegno all’impresa non profit culturale giovanile”, in ECONOMIA DELLA CULTURA, n.2/2013.

(2) Mi permetto di rinviare all’articolo di L.Maruzzi – F.Pierotti, “La definizione dei criteri di eleggibilità degli enti beneficiari tra vincoli normativi ed autonomia decisionale:quali prerogative per le fondazioni di origine bancaria”, in ARETÉ, n.2/2009.


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