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Riprendersi l’anima (oltre le sbarre di Opera)

di Luigi Maruzzi

Adesso che non c’è più Marco Pannella, chi accenderà i fari ‘mediatici’ sulle condizioni che patiscono le donne e gli uomini detenuti nelle carceri italiane?  Non saprei fare alcuna previsione in merito. Sicuramente si tratta di un problema gigantesco, istituzionale e sociale, che richiede riflessioni e azioni da progettare tenendo conto dei principi che distinguono un vero stato di diritto e delle esigenze di umanizzazione di quei luoghi. E allora cosa possiamo fare qui, ad altezza suolo? Beh, per esempio, possiamo occuparci di singoli individui che hanno qualcosa da raccontare per aiutarci a recuperare spazi di razionalità che la cecità dell’odio e del pregiudizio ci impediscono di intravvedere.  Nel corso della mia militanza burocratica sono spesso sollecitato da realtà scomode e, per certi aspetti, sgradevoli perché mettono in evidenza le mie contraddizioni. Ne potrei citare a decine: le iniziative per il Beccaria di Milano  (Link), la realizzazione di misure alternative alla detenzione carceraria (Link), l’accoglienza dei bambini di mamme detenute (Link).

Ma la storia che voglio far conoscere ai lettori di VITA è tanto straordinaria quanto cruda, come a ricordarci che è tutto vero e che in questa narrazione l’unico elemento di ‘fiction’ potrebbe essere soltanto il nostro senso di partecipazione e solidarietà che rischia di congelarsi nella commozione di un momento. Erjugen Meta, giovane albanese di 34 anni, detenuto da 10 anni nel carcere di massima sicurezza di Opera (MI), ha scritto un libro. È un fatto importante, e non perché sia la prima volta che il carcere venga eletto a location di esperimenti letterari. Quello che desta interesse è proprio la ‘parola’ poetica che – in questa contingenza storica – proviene da un uomo qualunque.

Resistere davanti a un tramonto che ti sfugge come la gioventù è come osservare l’eterno con la melodia di un attimo. Poesia 20ma (XX)
Indubbiamente, i 57 componimenti contenuti nel libro “Ridare l’anima” sono innervati dalla speciale prospettiva antropologica dell’universo carcerario; basta notare la frequenza con cui compaiono termini come “libertà”, “prigioniero”, “sbarre”, “filo spinato”.  Rispetto a tale condizionamento, si ha l’impressione che il profilo più prettamente artistico dell’opera venga collocandosi in secondo piano, anche quando l’Autore ricorre ad espressioni prese in prestito dall’italiano più ‘classicheggiante’: “Le vestigia di una finestra triste” (18ma); “mentre blandiscono i loro confini” (24ma); “E quando sfioriamo la battigia di un’isola” (29ma); “Dardi di luce” (38ma ).

Se, da una parte, è vero che le catene del carcere finiscono per allentare le corde della ‘cetra di Orfeo’, dall’altra sarebbe frutto di un impulso superficiale  liquidare il libro di Erjugen Meta come un puro esercizio di scrittura creativa, magari in forma ‘riorganizzata’.   Cominciamo col dire, piuttosto, che per quanto riguarda l’osservazione della propria realtà, l’Autore è molto ‘diretto’ e non ammette interposizioni.  Chi volesse capire cosa abbia rappresentato per lui la liuteria praticata in carcere, otterrà ogni soddisfazione dalla lettura delle poesie 27ma (pag.38) e 45ma (pag.58). L’incontro con la poesia come mezzo estremamente potente di indagine sul mondo è invece oggetto di uno splendido omaggio nelle pagine 43-44. Le poesie 22ma e 37ma offrono, infine, i punti cardine dei luoghi e della famiglia di origine.

Eppure, a nulla servirebbe l’analiticità di queste note se non fosse il necessario preludio al tentativo di andare oltre una fredda lettura tecnica del libro. Messa sotto questa luce, l’opera scritta da Erjugen Meta ci costringe a fare i conti con il tratto più autentico della sua ‘voce’. A patto di assumere una nuova predisposizione, potremmo scoprire quanto sensibile sia il nostro sismografo interiore all’ascolto di versi come quelli che compaiono nella 6a :   Con la forza di un isolato / ho chiuso gli occhi e ho urlato forte per lui. nella 27ma :   e io comincio a gridare dolcemente. o nella 40maChiudo gli occhi, / le ciglia umide per non sentire / l’anima che urla.

Come pure, potremmo fare un viaggio straordinario per luoghi che nessun aeroplano raggiungerebbe: ricordo le mie lacrime / come l’ultima pioggia nel deserto (1a); Desidero tanto averti accanto / come un ruscello che sorge nel deserto” (48ma).

Fino a capire che la vera bellezza di questi componimenti risiede proprio nell’uso ostinato di un rimario centrale – oscillante tra massima, nota diaristica, invocazione religiosa, canto – che sintetizza il patrimonio espressivo inalienabile del poeta.

Peccato che non conosca personalmente Erjugen, perché avrei molti altri pensieri (e domande) da condividere con lui.  Chissà se continua a scrivere dopo che una parte di sé è riuscita a tornare tra gli esseri liberi, grazie a una coraggiosa e fortunata iniziativa editoriale (realizzata da “La Scuola”). Non immagino nemmeno con quali occhi leggerà le sue prossime creature. In fondo, non saprei dire se la scoperta della poesia gli abbia ‘ridato l’anima’. Ma qualcosa di importante è successo in lui, nei volontari che lo hanno accompagnato fin qui (*) e in chi cerca nettare di verità tra i fiori dei suoi versi. Forse non sarebbe sbagliato pensare che Erjugen abbia fortemente voluto ‘riprendersi l’anima’: proprio quella che oggi gli permette di far rivivere oggetti e sentimenti “sussurrando buongiorno a tutto il mondo” (verso 22 della 45ma).

 

(*) Il sito della Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti (Link) offre generosi dettagli sul progetto che ha coinvolto Erjugen Meta nel laboratorio di liuteria.


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