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L’occhio rapito dai matti (che non ci sono più)

di Luigi Maruzzi

Allo spazio espositivo del Broletto di Pavia è stata allestita una mostra con le fotografie della fotografa pavese, Marcella Milani, che vuole omaggiare “spazi e silenzi del manicomio di Voghera”. Resterà aperta fino al 1° di ottobre.

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È il quindici di settembre, un giorno infrasettimanale. Di ritorno da Milano, senza tornare a casa per cambiarmi, mi reco in Piazza della Vittoria a Pavia. Appena intravvedo il chiostro che devo attraversare, riprende subito forza il mio entusiasmo. È il giorno dell’inaugurazione. Un evento in piena regola: oltre duecento persone (alla fine diventeranno 350!), e non mancano le autorità, gli sponsor e l'aperitivo bio a chilometro zero. Cerco un viso conosciuto, ma non ci sono amicizie 'mie'. Forse molti dei presenti sono la materializzazione dei tanti followers di facebook che circondano di affetto la loro Marcella. In compenso trovo il corniciaio della mostra, che conosco e col quale scambio qualche frase di circostanza (complimenti compresi). Finalmente entriamo. Faccio il mio giro, compro il catalogo, saluto la fotografa e quando il mio mal di testa ha raggiunto un livello insopportabile, esco fuori per prendere un po' d'aria. Vista la situazione, decido che è meglio rientrare alla base.

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È domenica, sono passati dieci giorni dall'inaugurazione. Ritorno a visitare la mostra, e anche questa volta le foto di Marcella Milani mi colpiscono particolarmente. Ma non come quelle della sua precedente mostra (URBEX). Per questo secondo appuntamento l'elemento architettonico è assai meno protagonista. E poi sembra che l'occhio di MENTE CAPTUS sia più preoccupato di immortalare una dimensione squisitamente individuale delle storie consumate nei corridoi, stanze, sotterranei, ambulatori e cortili dell'ex manicomio di Voghera.

Di fronte alle cattedrali della potenza industriale (Urbex) si avvertiva quasi istintivamente il bisogno di elevare lo sguardo per interrogare colui che domina l'universo sul senso di tanta devastazione. Ma ora, come potrebbe reagire un animo ferito davanti alle nuove immagini proposte dalla fotografa pavese?

Intanto, vorrei evitare di scomodare un concetto abusato come quello di "fascino" dei luoghi ritratti. Preferisco indirizzare altrove la mia ricerca delle ragioni più profonde che possono far emergere il valore di una mostra come questa. Forse, hanno ragione coloro che, commentando le fotografie della Milani nell'apparato introduttivo del catalogo, parlano di "immagini che ci colpiscono allo stomaco per la loro crudele evidenza drammatica" (Susanna Zatti p.9); oppure ci ricordano in qualche misura la frustrazione di taluni psichiatri che negli anni ottanta "prendevano servizio con l'aria di chi mi stava facendo un favore" (Gabriele Pelissero p.18); o – ancora – ci invitano a riconoscere nella struttura manicomiale di Voghera il "segno di un tempo che (…) fu 'buio' per le Istituzioni e per la scienza” (Livio Tronconi p.22).

Eppure, dev'esserci un modo per rigenerare lo sguardo catturato dalla memoria dolorosa che si affaccia alle nostre coscienze. In armonia con questi pensieri, trovo un'abbondanza di stimoli nella potente riflessione di Anna Cremante. Con quanto scrive nel capitolo "Luci spente", la psicologa dell'Istituto Mondino (Pavia) spiega che il fascino sprigionato dalle pareti sbriciolate di un'istituzione totale come il manicomio – "nella quale l'ambiente e le sue regole mortificano l'individuo, provando quotidianamente a sottrarne la dignità" (p. 29) – deriva dalla distanza conquistata attraverso la mediazione dello scatto fotografico. Ma si tratta di un fascino diverso da quello prodotto dalla mera contemplazione estetica. Perché presto lascia il posto all'indagine sull'architettura interiore: "lo struggimento che ha consumato le vite tra le pareti del manicomio evoca le afflizioni che ogni essere umano prende con sé nel corso dell'esistenza" (p. 28). Se poi, come afferma la stessa Cremante, è persino la natura "a spegnere (…) la luce nelle camerate" (p.29), allora credo di capire lo sforzo che Marcella Milani compie quando tenta di restituire luce a quelle tele ideali che sono le sue fotografie, su cui stende una sostanza che brucia e purifica, simile a bianchissima calce.

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CURIOSITÀ E PROPOSTE

1) Un paio di targhette poste a fianco delle opere artistiche di ex pazienti (personalmente ho ammirato il dipinto di Mantegazza), riportano la data del 1895, con evidente inversione della seconda e terza cifra. Uno stratagemma tanto inconsapevole quanto efficace per allontanare nel tempo i protagonisti dell’infermità psichica cui rimandano quasi tutti gli oggetti fotografati dalla Milani.

2) Nella foto che riprende lo schedario degli ex pazienti trovo un nome che mi attrae (iniziali = T.M.). Mi verrebbe voglia di scrivere dei versi che giocano sull’assonanza e la rima della parola “mattina”.

3) Dove finiscono le fotografie quando termina una mostra? Possono essere acquistate? Mi riferisco sia ad URBEX che a Mente Captus.

4) L’iniziativa, tecnicamente ineccepibile, si è avvalsa anche di un musicista e di un’associazione che ha accompagnato i visitatori (20 e 27 settembre). Perché non organizzare qualche incontro in libreria con un estratto delle foto esposte e la proiezione degli scatti non selezionati?


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