Attivismo civico & Terzo settore

Quale gobba?

di Claudio Di Blasi

La cultura è la radice e il fondamento della strategia. Il pensiero strategico nella sua evoluzione storica fluisce nella corrente della cultura di un paese. La cultura strategica di un paese non può che fondarsi sulla sua tradizione culturale, che in modo complesso e inconscio prescrive e definisce la strategia.

Generale Li Jijun

Vice Presidente dell’Accademia delle Scienze Militari

1998, Beijing

 

Può sembrare balzano avviare un ragionamento sul servizio civile partendo da una citazione di un generale dell’Esercito Popolare di Liberazione cinese, ma un approccio diverso può aiutarci a comprendere meglio i problemi di casa nostra. L’approccio “cinese” alla comprensione della politica sta tutta nella battuta di un altro illustre cinese, Zhou Enlai, che fu ministro degli affari esteri della Cina maoista. Interrogato negli anni ’60 sugli esiti della rivoluzione francese, rispose:”La rivoluzione francese? Troppo presto per formulare un giudizio”.

In questi giorni alcuni parlamentari del centro sinistra italiano si affannano nella ricerca, disperata e disperante, dell’unicorno del servizio civile, ovvero nella risposta alla domanda: cosa è il servizio civile?

Si sa, il modo più facile per rispondere ad una domanda è quello di ripetere quello che ha detto chi ti ha preceduto, sempre che si abbia avuto la fortuna di orecchiare adeguatamente.

Era pertanto banale e scontato che la risposta fosse: il servizio civile è Difesa della Patria (con le maiuscole, che ci vuole rispetto), ovviamente non armata, nonviolenta e alternativa alla difesa militare.

 

E qui ritorniamo ai nostri simpatici cinesi, alla loro visione della realtà su tempi ampi, al loro legare il “pensiero strategico” alla cultura di una nazione: ed il pensiero strategico è il pilastro principale della tanto citata “difesa della patria”.

Se ripeschiamo dalla soffitta i manuali di storia delle superiori, potremmo notare un fatto singolare, che accomuna la stragrande maggioranza delle forme statuali succedutesi nella penisola italiana da 600 anni in qua: salvo rarissime eccezioni, pochi di questi stati hanno condotto guerre di conquista e/o offensive verso altri popoli o nazioni.

Si sono fatte guerre tra “italiani”, guerre di indipendenza o di liberazione, guerre in difesa da aggressioni esterne…. ma raramente siamo andati a rompere le scatole a terzi per appropriarci dei loro beni e dei loro territori.

Certamente, vi è stata a spedizione in Crimea del Benito Benso, il tentativo maldestro di crearsi un impero coloniale in Africa, il primi triennio del secondo conflitto mondiale… poca cosa in seicento anni, direbbe Zhou Enlai.

Se il generale Li Jijun dovesse dare un parere sulla nostra cultura strategica, fondata sulle nostre tradizioni culturali e su oltre mezzo millennio di storia, ebbene come ci definirebbe?

Come un popolo di pacifici per cultura e pacifisti per strategia, che ci mettono un bel po’ ad incavolarsi anche quando sono occupati e salassati, il cui inno nazionale più che “Fratelli d’Italia” dovrebbe essere il più simpatico “Non spingete scappiamo anche noi” (a questo link l’eccezionale interpretazione de “I Gufi” http://www.youtube.com/watch?v=YXIia3LaPw0 ).

La cultura strategica difensiva degli italiani si è dispiegata al massimo durante la guerra fredda, quando i miei zii alpini montavano la guardia sulle Dolomiti, in attesa dei cosacchi del Don con il colbacco impreziosito da una bella stella rossa: per armi e soldati si spendeva poco, si pensava al benessere ed alla crescita economica, e comunque c’era Zio Sam con il suo ombrello nucleare.

Poi è caduto il Muro di Berlino, le divisioni sovietiche si sono volatilizzate…. era il momento di dedicarci ancora di più ai fatti nostri? Pareva proprio di sì, ma un ristretto ceto politico e burocratico ha pensato male di “modernizzare” la cultura strategica italiana, ed è iniziato il periodo di forsennate, e quasi sempre immotivate, missioni all’estero.

Per fare ingoiare l’amaro calice di questo interventismo senza arte né parte si è ricorso a strumenti propagandistici di dubbia razionalità: dall’ossimoro dello “esercito di pace”, alla ridefinizione di guerre come quelle del Golfo in più tranquillizzanti “operazioni di polizia internazionale”, per giungere a sostenere che una nave da sbarco era utile ad operazioni di protezione civile (un prodromo della più recente trasformazione di un caccia da superiorità aerea in velivolo antincendio).

Questa pulsione minoritaria ed elitaria alla “proiezione di potenza” non è appannaggio esclusivo di questa o quello schieramento politico o partitico: destra e sinistra parlamentare, con rare e sparute eccezioni, sono andate a braccetto ed hanno cercato di convincere i rispettivi elettorati della bontà di tale rivoluzione culturale in ambito strategico.

E’ sufficiente dare una scorsa alle votazioni parlamentari sugli interventi fuori confine degli ultimi 20 anni, ovvero a quelli per il finanziamento delle cosiddette “missioni all’estero” per averne un’amara conferma.

Ma quel che è peggio, anche l’area politico culturale che potremmo definire “pacifista” si è fatta contagiare dal virus dell’interventismo a tutti i costi, proponendo metodi “alternativi” all’intervento armato esterno, ovverosia la creazione di “corpi nonviolenti di pace” inquadrabili nelle istituzioni statali, finanziati dal bilancio dello stato e che addirittura, secondo gli esegeti di tali teorie, dovrebbero operare negli stessi teatri dei reparti militari italiani, ma in maniera alternativa, per non dire conflittuale, rispetto a questi ultimi.

Per dare una base teorica e legislativa a tale chimera, in questi anni si è forzato il significato ed il senso del servizio civile.

Negli anni settanta ed ottanta, quando la minaccia militare era concretamente rappresentata non solo dall’olocausto nucleare, ma anche da un’invasione da parte delle divisioni corazzate sovietiche, l’ipotesi della “difesa popolare nonviolenta” e del “transarmo” avevano una base non solo teorica, ma anche praticata in altri contesti nazionali (Repubblica Elvetica, Paesi scandinavi, Repubblica Federale Yugoslava), con esempi storici recenti: addirittura se ne ragionava tra gli stessi ufficiali delle Forze Armate italiane.

Si trattava di una proposta operativa che prevedeva di rispondere ad un’invasione militare tradizionale con strumenti non militari, rendendo “indisponibile” il territorio occupato e le sue risorse tramite la mobilitazione popolare e la disobbedienza civile.

Era questo il concetto di Difesa Popolare Nonviolenta (DPN), non certo esauribile nelle attività sociali e culturali svolte dagli obiettori di coscienza in alternativa al periodo di servizio militare, e non certo esportabile in un contesto esterno alla comunità nazionale ed al territorio da essa vissuto.

Casomai ai tempi si richiedeva che gli obiettori di coscienza fossero il “nucleo operativo” intorno a cui costruire la DPN: ci si guardava bene dal teorizzare che l’attività di servizio civile svolte a favore degli anziani avrebbero fermato un carro armato sovietico T72.

E qui arriviamo alla “gobba” del servizio civile dei nostri giorni.

La scena della “gobba e del bastone” in “Frankestein Junior” è un’icona (per chi se la volesse rigustare, ecco il link http://www.youtube.com/watch?v=nvV3HzuDlb4 ): 130 secondi di comicità sul concetto che ogni essere umano ha della realtà.

Il servizio civile è come la gobba di Igor…. tutti la vedono e sanno cosa è, salvo il diretto interessato.

Che il servizio civile abbia uno stretto ed indissolubile legame con le criticità odierne della “questione giovanile”, prime tra tutte quelle del lavoro e dell’appartenenza civica ad una comunità, ce lo vanno ripetendo autorevoli esponenti della politica, della società civile, delle istituzioni. Nelle ultime settimane sul servizio civile si sono espressi:

  • il segretario generale del maggior sindacato italiano, la CGIL, che l’ha definito “lavoro retribuito”;

  • un ministro del lavoro che ha inquadrato il servizio civile nella maggiore azione di inserimento dei giovani nel mercato del lavoro da 30 anni a questa parte;

  • l’attuale presidente del consiglio che addirittura gli ha affidato l’obiettivo strategico di fare uscire l’Unione Europea dalla crisi di rappresentanza in cui versa.

Non si tratta di dichiarazioni e di manifestazioni di interesse da poco…. quando mai si è sentito una sindacalista, e che sindacalista, invocare investimenti di miliardi di euro sul servizio civile?

 Ci stanno dicendo che abbiamo una grande, immensa, nonché interessante, gobba, ovverosia la gobba “servizio civile come strumento ideale per affrontare il tema dell’inclusione e della disoccupazione giovanile”….. ed il mondo del servizio civile che fa?

Mobilita alcuni parlamentari di riferimento per far scrivere non una, ma due proposte di legge di riforma del servizio civile che iniziano con la roboante dichiarazione “Il servizio civile è Difesa della Patria”…. come dice un mio simpatico amico del centro Italia, una plastica dimostrazione di “pugnette a pois”.

A questo punto è legittimo, anzi necessario, domandarsi le ragioni di questo perseverare nella negazione della realtà.

Mi vengono in mente due possibili spiegazioni, una nobile ed una ….. definiamola “pratica”.

La ragione “nobile” sta tutta nell’essere parte di quella “minoranza di migliori” che vogliono sovvertire la tradizione culturale strategica nazionale, portandola sulla strada di un “interventismo pacifista” esasperato.

Un pacifismo che non si limita a fare il suo mestiere, cioè adoperarsi in ogni modo per la riduzione dello strumento militare e degli investimenti dedicati allo stesso, anche perché questa strada apre spiacevoli “contraddizioni in seno al popolo”: meglio lasciare relativamente tranquillo il bilancio della difesa, ed insistere nel rivendicare a propria volta una capacità di proiezione esterna, effettuata con futuribili “corpi nonviolenti di pace”.

La ragione “pratica” è ben riassunta nel manifesto “In Movimento” lanciato in questi giorni da “Vita”, laddove afferma la necessità di “farla finita con l’autoreferenzialità, per smettere di lamentarsi e praticare la sola rivoluzione che cambia, quella della positività e delle esperienze”.

Le grandi realtà del servizio civile sono divenute autoreferenziali, nel senso che badano in primis alla sopravvivenza della loro struttura: una struttura fortemente centralizzata, dove la “periferia territoriale” è funzionale a quanto si decide negli uffici posizionati intorno a Palazzo Chigi.

Perché questa realtà si perpetui, occorre una normativa che a sua volta concepisca il servizio civile come uno strumento “centralizzato”, in capo ad una istituzione unica e statale che non abbia interferenze esterne e che dialoghi con attori esterni centralizzati quanto lui…. e motivare il servizio civile con la ragione-religione della “difesa della patria” garantisce questo scenario.

C’è solo da augurarsi che la negazione della gobba non porti all’azione conseguente: imitare ancora una volta Frankestein, e per scendere le scale dotarsi di un bastone che, invece di esserci di ausilio, serve solo ad aumentare le probabilità di un capitombolo.


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