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Attivismo civico & Terzo settore

Gerontocrazia

di Claudio Di Blasi

Nel 1981, quando iniziai venti mesi di servizio civile obbligatorio, ricordo che nei primi giorni fui parcheggiato in una stanza, al centro della quale troneggiava un enorme tavolo ricoperto da migliaia e migliaia di schedine di carta, su ognuna delle quali erano riportati dei dati anagrafici.

Primo compito dell’obiettore Claudio Di Blasi: mettere le schede in ordine alfabetico. Per amor di verità, specifico che non si trattava del “solito comune”, bensì un ente privato, per l’esattezza una struttura legata ai sindacati confederali.

E’ da esperienze del genere, replicate con perfida fantasia in centinaia di varianti, che sono nate figure leggendarie: dall’obiettore addetto alla fotocopiatrice, a quello con compiti di imbianchino, sino a giungere al mitico “indicatore umano di servizi igienici”.

Del resto, in quegli anni era quasi inevitabile incappare in simili avventure: il riconoscimento come obiettore era una lotteria, non vi era alcuna programmazione nell’invio della “risorsa” (anzi non si era neppure considerati risorsa), la progettazione era un termine sconosciuto. In modo casuale venivi spedito in questo o quell’ente, che spesso neppure sapeva del tuo arrivo sino a pochi giorni prima e quasi mai ti conosceva. Erano anni in cui non vi era scarsità di personale negli enti, pubblici o privati che fossero: pertanto l’ultimo arrivato per caso, ovverosia l’obiettore in servizio civile, si ritrovava affibbiati i compiti più stupidi ed inutili.

Quale fu la “reazione istituzionale” a tale andazzo? Il classico ukaze ministeriale: ogni attività impiegatizia ed amministrativa fu vietata agli obiettori di coscienza.

Con l’avvento del servizio civile volontario il divieto fu burocraticamente ampliato: si impedì lo svolgimento di “attività autoreferenziali”, ovvero atti che andassero a vantaggio esclusivo della struttura che ospitava il volontario, senza una ricaduta diretta sui cittadini. Alcuni esempi di “attività autoreferenziali”: collaborare alla stesura di un bilancio comunale piuttosto che alla elaborazione di un progetto per ottenere finanziamenti dall’Unione Europea o alla implementazione del sito internet di una associazione.

Piccolo particolare: non siamo più nel 1981, sono passati oltre trenta anni.

Le schede cartonate sono state sostituite dai computer, se sai qualcosa di bilanci e loro tenuta hai buone possibilità di trovare un posto di lavoro, gestire un sito internet è una di quelle abilità che metti in risalto nel tuo curriculum. Infine, la risorsa umana “volontario in servizio civile” è diventata preziosa: l’ente ospitante non solo tende a programmare il suo inserimento, non solo la seleziona direttamente, ma ne ha anche “bisogno”: negli enti pubblici le assunzioni fanno ormai parte delle “leggende aziendali”, negli enti privati c’è bisogno di provare la nuova risorsa prima di inserirla stabilmente nella struttura.

Eppure quanto  codificato decenni fa continua a sopravvivere, sino a generare imbarazzanti contraddizioni. Un esempio concreto viene dalla Lombardia: la leva civica regionale che si sta sperimentando da un biennio sta riscuotendo un grande successo, anche se finanziata in toto o al 40% dall’ente ospitante, ma i settori più gettonati dagli enti sono quelli “vietati” dal servizio civile statale, perché considerati “impiegatizi” o “autoreferenziali”. Come se ciò non bastasse, il ritorno occupazionale dei giovani impiegati in questi settori “proibiti” è maggiore, e di molto, rispetto a quelli ammessi dalla tradizione statale.

La realtà inoltre ci costringe ad un’altra doccia scozzese, nel momento in cui pensiamo all’inserimento nel servizio civile dei giovani NEET, ovvero esclusi da ogni percorso formativo, di istruzione o di lavoro. Questi NEET non sono tutti pluri laureati, anzi nella maggior parte dei casi si tratta di ventenni con un percorso scolastico minimo e che il mercato del lavoro ha già espulso o di cui non sa bene che fare. Per questi giovani il servizio civile avrà un senso se si riuscirà a coniugare attività pratica, per forza di cose non necessitante di una formazione teorica elevata, ad un percorso formativo che riempia di saperi l’attività pratica stessa. Esemplificando, per un anno un giovane opera nella manutenzione del verde e dei parchi, e nel contempo acquisisce conoscenze certificate in campo ambientale, con l’obiettivo finale di posizionarsi al meglio sul mercato del lavoro al termine di questa esperienza.

Possiamo coltivare la speranza nel futuro, perché molti operatori del sociale, molte realtà locali, alcune Regioni (la Lombardia, ma anche la Provincia di Trento) si sono attrezzati per queste nuove sfide, stanno elaborando nuovi strumenti legislativi e operativi.

Nel contempo, colpisce l’arretratezza del livello nazionale.

La XII commissione della Camera dei Deputati, occupandosi di servizio civile, in queste settimane ha dimostrato scientificamente che l’Italia non è un paese per giovani. Linguaggio obsoleto, soluzioni arcaiche, un’idea di servizio civile che si può far risalire agli anni settanta dello scorso secolo: una legge che nasce già vecchia e impotente, da rottamare. Insomma i parlamentari della commissione (con le lodevoli eccezioni della sparuta pattuglia del Movimento 5 Stelle e della Lega Nord) hanno dato una splendida dimostrazione che la gerontocrazia non è una questione anagrafica, ma mentale.

Proviamo a stimolarli, con gli indimenticabili “Area” e questo loro brano

https://www.youtube.com/watch?v=Jhje6LfGWQ0


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