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L’efficienza della felicità

di Giulio Sensi

Il Financial Times riporta un articolo dal titolo “The pursuit of happiness in the workplace” segnalato opportunamente da Serena Danna sul blog Solferino 28 del Corriere.it.

Parla di come nelle più prestigiose business school del mondo stia cambiando l’approccio formativo ai futuri manager, inserendo la felicità e la realizzazione personale come ingrediente del manager di successo perché è più produttivo avere persone motivate ed equilibrate. Le quali sappiano a loro volta lavorare per la felicità dei loro dipendenti.

L’involontario l’ha già scritto in altre occasioni: se si potesse monetizzare il danno derivato dalla cattiva gestione del personale, dall’arroganza e incompetenza di molti dirigenti, dagli inutili conflitti che ammorbano i posti di lavoro e fanno ammalare le persone, ci troveremmo come minimo di fronte ad una percentuale visibile di prodotto interno lordo e avremmo un motivo in più di lamento.

Vi racconto una storiella riportatami da un’amica che spiega in maniera emblematica cosa sta succedendo in molti luoghi di lavoro d’Italia. Perché il problema dei giovani non è soltanto la difficoltà a trovare lavoro, non si tratta solo di spazi chiusi nel mercato e nelle aziende. Una volta che il lavoro si trova, magari precario, si deve sovente avere a che fare anche con i dirigenti dalla mentalità anacronistica e dai metodi discutibili. E riguarda anche i settori innovativi e in crescita.

La storia è questa, per ovvie ragioni evito riferimenti espliciti.

Un gruppo di giovani competenti e motivati mette in piedi un centro di servizi informatici per un consorzio di banche che ne ha bisogno. Il centro funziona molto bene: i giovani crescono, il lavoro c’è, i rapporti sono buoni, ogni giorno si impara e si insegna qualcosa. Si guadagna pure bene e il consorzio è soddisfatto.

Si dà il caso però che il consorzio stesso abbia diversi dirigenti in esubero che devono essere piazzati fuori perché gravano pesantemente sul bilancio delle banche. Cosa fare? Molto semplice, si affibbiano al centro di servizi con la scusa che servono capacità manageriali interne. Le quali, si badi bene, c’erano già e stavano crescendo nei giovani innovatori che vi lavoravano.

I dirigenti, guarda caso quelli giudicati meno competenti e umanamente meno apprezzati, vengono imposti dal consorzio di banche al centro di servizi dal momento che il consorzio è il più importante committente. Escono dai palazzi delle banche ed entrano nella sede del centro di servizi sempre con un contratto da dirigente. Perché mentre i giovani non trovano lavoro è ancora uso in Italia uno strano tabù rispetto agli arretramenti salariali e di qualifica. Un tabù che, peraltro, è odiosamente presente anche in alcune realtà del non profit in cui per i giovani ci sono poche risorse, ma i paracaduti politici, guarda caso, fioccano sempre per gli ex big che hanno fatto danni da qualche parte. Non chiedetemi di fare i nomi.

Torniamo alla nostra storia: i dirigenti, oltre ad essere poco utili, iniziano ad imporsi in maniera incompetente ai giovani. Il clima si sgretola e fra i talenti chi può se ne va, chi non può rimane a soffrire per uno stipendio. Il centro di servizi da eccellenza italiana diventa un inferno produttivo come tanti altri. Il consorzio di banche da generatore di innovazione diventa cannibale della propria creatura. 

Generalizzare è sempre un’operazione di approssimazione, ma si può dire che questa storiella parla molto dell’Italia di oggi.  Ed è un problema che riguarda da vicino anche il non profit in cui la felicità è spesso rivolta verso l’esterno, verso gli utenti da soddisfare o la coesione sociale da salvare. Quasi mai verso l’interno, verso chi vi opera.

Di storie simili a quella che vi ho raccontato ce ne sono a migliaia. Vi vedo già muovervi nervosamente dalla sedia della vostra scrivania con la voglia di far sapere la vostra. Queste storie, tutte insieme, dovrebbero diventare il copione di una pièces grottesca che deve cambiare.


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