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Di troppi dati si sta male

di Giulio Sensi

Di troppi dati non si muore, si sta male ma non si muore. Potremmo dirlo parafrasando, il parlato di una vecchia canzone con i risultati di uno studio prodotto dal Censis a giugno.

Il succo dell’allerta lanciata dal centro diretto da Giuseppe De Rita è chiaro: il bombardamento di dati statistici e di relativi studi non porta più conoscenza, ma maggiore confusione. Anche perché è sempre più frequente la tendenza a riportare i dati stessi senza corrette interpretazioni, o proprio senza alcuna interpretazione.

Intendiamoci: gli istituti di statistica fanno il loro mestiere. Producono i dati che la politica e gli attori sociali ed economici dovrebbero usare per brancolare meno nel buio. Ma il problema esiste e lo dimostra il fatto che nonostante la mole di dati quotidianamente a disposizione, abbiamo tutti difficoltà a rispondere a semplici domande come le seguenti, solo per fare qualche esempio: quanti poveri ci sono in Italia? Quando si è poveri? Quante persone sono disoccupate? Qual è il tasso di disoccupazione della popolazione giovanile? C’è più o meno ricchezza in Italia?

Su quanti dati che parlano del nostro Paese siamo veramente tutti informati e d’accordo? Ma poi: si può essere in disaccordo su un dato statistico?

Con buona pace per i giornalisti italiani che a tutti i livelli, e già da un po’, hanno sviluppato una vera e propria idolatria dei numeri: se c’è il dato, la notizia è assicurata, anche perché esso toglie al giornalista stesso la responsabilità di dover dimostrare qualcosa.

Interpretare il dato è un compito su cui in pochi si cimentano, andarvi dietro mettendolo in discussione, poi ancora meno. Anche perché “non c’è tempo”. Ma sarebbe utile perché scopriremmo che molto spesso vengono usati dati per dimostrare cose che con i dati stessi hanno a che fare solo marginalmente.

L’idolatria dei numeri che spiegano la realtà ha impoverito l’informazione: invece di raccontare storie che raccontano come vive il Paese, invece di inseguire i fatti e le notizie che parlano di cosa siamo diventati, si usa il dato statistico che tanto è sacro e inviolabile. Con il risultato di uniformare l’informazione e renderla sterile. Perché il dato, invece che spingere a cambiare, è l’emblema della cristallizzazione della realtà. È una fotografia bloccata, soprattutto quando è negativo, senza possibilità di cambiare. Un macigno difficile da spostare. È un po’ come lo sguardo di tanti nostri giovani, cinicamente affetto da una malattia autoimmune che uccide la speranza e che si chiama rassegnazione.

Allora pieghiamoli questi numeri, domiamoli, scaviamoli, mettiamoli in dialogo. E superiamoli anche, rigettando i pericoli da tirannia del dato statistico che anche nel terzo settore minaccia le menti dei dirigenti e il lavoro degli uffici di comunicazione. I numeri sono belli ed importanti, servono a raccontare i grandi processi sociali e sono anche uno sforzo di trasparenza. Ma sono strumenti per arrivare da qualche parte, non bei quadri da guardare comodamente seduti. Usiamoli meglio e condiamoli di umanità.


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