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Cambiare il modo è possibile!

di Giulio Sensi

Qualcosa si muove nella comunicazione del non profit italiano: crescono le capacità, le connessioni, le interazioni e aumenta la volontà di voler far veramente l’agognato “salto di qualità” che un pezzo così maturo e importante del nostro Paese deve fare anche sul fronte della comunicazione.

Eravamo una trentina, comunicatori e non solo. Ci siamo ritrovati a Lucca lo scorso fine settimana per un workshop incentrato sulla comunicazione e il cambiamento organizzato dal Centro Nazionale per il Volontariato. Nella nuvola rilassata del convento di San Cerbone, ben nutriti dalle nostre suorine e coi fichi di stagione appena colti dall’albero, abbiamo lavorato per due giorni a migliorare la percezione del Paese e la capacità di essere più incisivi nella comunicazione.

Siamo usciti accresciuti e con una consapevolezza diversa, non tanto perché in due ore un pugno di comunicatori del non profit sono riusciti a piazzare l’hashtag scelto -#cambiala, la comunicazione e l’Italia, insieme- al terzo posto della classifica dei trending topics di twitter fra i calciatori VIPs, ma soprattutto perché abbiamo creato connessioni preziose. Proviamo a sintetizzare in poche frasi qualche conclusione: come ci ha ricordato la sociologa Gaia Peruzzi, la comunicazione deve essere un progetto ampio e tutto il non profit ha di fronte a sé la possibilità di portare avanti non solo dei piani di comunicazioni efficaci, ma l’idea di un cambiamento culturale. E passare sempre di più, come ci ha suggerito il direttore editoriale e fondatore di Vita Riccardo Bonacinadall’arte dell’informare a quella del raccontare. Altrimenti le nostre informazioni rischiano di annegare insieme a tutto il resto. Raccontare ad esempio le storie del cambiamento che vogliamo, anche con le immagini, evitando gli errori comuni che spesso commettiamo nel farlo e che ci sono stati mostrati da uno che vede molto oltre come Andrea Cardoni.

Poi è apparsa una bandiera bianca, almeno per chi ha il coraggio di issarla: finita l’era della comunicazione individuale, la comunicazione in rete è la frontiera del terzo settore. Parlare a voce bassa, ma con le stesse parole. Per carità, c’è chi pensa ancora che fare da sé convenga. Se se lo può permettere lo faccia pure, ma in epoche di risorse che non traboccano dai bilanci del non profit, si può fare molto con poco, almeno quando si è piccoli (ma agguerriti).

Insomma, per cambiare il mondo possiamo già iniziare a cambiare il modo: di comunicare e di essere presenti nello spazio mediale.

Un gioco di parole che ho proposto anche nella sorta di prefazione ai finger-books che Aism -Associazione Italiana Sclerosi Multipla- ha preparato per i volontari che vogliono sostenere la causa in rete. Sei strumenti pregevoli di lavoro, validi peraltro per qualsiasi causa e in tutti i contesti. Mini guide che sono a disposizione di chi vuole superare quelle “disabilità comunicative” che troppo spesso ci imponiamo da soli.

Ci ricordano che fra le rivoluzioni culturali che il “mondo dei buoni” -il terzo settore, ma non solo- ha di fronte, c’è quella della comunicazione: non occorre aspettare che gli altri, i grandi, i media importanti, parlino di noi: iniziamo a raccontare e raccontarci bene, usando al meglio i tanti mezzi che abbiamo a portata di mano. Le conseguenze ci sorprenderanno.§

L’investimento più urgente da fare non è in denaro, ma in energie, in testa. Comunicare bene significa prima di tutto credere in quello che si fa e si dice; e vivere l’azione e l’impegno sociale come un campo in continua e collettiva lavorazione. Tutti possiamo essere fattori di quel campo, anche i più inesperti. Ma se la comunicazione non è -solo- professione, occorre comprendere che è anche e soprattutto questione di capacità.

Si impara facendo e inserendo nel processo di lavorazione un ingrediente fondamentale: la curiosità. Serve sperimentare, provare, sbagliare e cambiare idee in continuazione. Comunicare, e in particolar modo per i settori solitamente più trascurati dai media, è più un processo che un prodotto da gettare al vento. Un processo in cui l’individuo è solo uno dei protagonisti, è attore di un copione collettivo che, se tutti recitano bene la propria parte, può diventare molto interessante.

Anche su questo nel non profit dovremmo avere più coraggio e “aprire tutto”. Superare i blocchi, gli stessi che spesso dai vertici delle organizzazioni vengono imposti nella comunicazione e nella partecipazione di base. Salpare in mare aperto, senza paura e con la voglia di crescere insieme.


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