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Ecco perché ce la possiamo fare

di Giulio Sensi

Dunque il primo di gennaio divide in tre partiti il genere umano rispetto al nuovo anno: chi è ottimista, chi pessimista e chi non pensa che qualcosa possa cambiare. Semplifichiamo ovviamente, ma in buona parte è così. Ognuno usa a suo comodo la ragione, accostandovi il sostantivo che più ritiene calzante. Ormai tutti siamo consapevoli di essere entrati nell’era delle scarse risorse di ogni tipo. Ieri alla radio ascoltavo uno arrabbiato con un ospite in studio il quale riteneva che la cultura e gli aspetti immateriali della vita avessero la stessa dignità di un pasto caldo e un tetto sulla testa. Prima viene la sussistenza diceva l’ascoltatore, poi tutto il resto. “Scusi ma lei muore di fame?” replicava intelligentemente l’ospite in studio.

Mi colpisce molto il fatto che in Italia ci siano così tante persone che hanno paura di morire di fame. Solitamente sono quelli che mangiano di più (e peggio). E che si lamentano un sacco di come va il mondo che anche loro hanno contribuito a creare. È vero, sarebbe stupido negarlo, la crisi sta deteriorando le condizioni materiali della vita, sta minando il benessere, sta colpendo duro anche da noi. Non colpisce tutti allo stesso modo, perché chi ha più certezze ha meno fragilità. Ma il partito del lamento è la vera forza trasversale dell’Italia.

Allora ci toccherà, ancora per molto tempo, subire in ogni spazio pubblico e privato le lamentele dei gufi a pancia piena. Non so voi, ma io non li sopporto più. Ce l’hanno con gli immigrati, ce l’hanno coi politici, ce l’hanno con la pioggia e col sole, ce l’hanno con tutto quello che è diverso dalle proprie comode certezze, ce l’hanno con lo Stato che li mantiene, mandano tutto e tutti a quel paese, anche se a quel paese ci abitano.

Sono di destra, di centro, di sinistra, non fa differenza. Sono vecchi e incapaci di vedere il mondo in modo nuovo. Certo, l’informazione italiana non aiuta perché martella di effetti senza raccontare le cause: i poveri sono sempre di più, il debito pubblico è sempre più alto, il sistema previdenziale ce la farà sempre meno a pagare le pensioni di tutti.

Il 2014 è un anno particolare poi, perché sono passati esattamente 50 anni dall’anno del baby boom. Si nasceva tanto nel 1964, c’era ottimismo nell’aria, c’era lavoro, c’era benessere. Così dicono. Io non lo so, so solo che mi fa arrabbiare vivere in un epoca in cui, apparentemente, non c’è niente di memorabile da ricordare. Un’epoca in cui la più grande produzione industriale italiana è diventata quella di cinismo e rassegnazione.

È vero, il peggio deve ancora arrivare. Perché i sistemi di welfare saranno sempre meno capaci di dare risposte non solo ai bisogni “gravi”, ma anche ai diritti ordinari -forse considerarli ordinari ha contribuito a minarli-, quelli che fino ad oggi non erano messi in discussione. Almeno da noi la crescita economica non arriverà mai più come prima.

E poi c’è un altro aspetto che pochi assumono: non siamo capaci di crescere economicamente, ma neppure di fare in modo nuovo e migliore le cose che dovremmo e potremmo. Dal turismo alla cultura, dalla ricerca alle nuove tecnologie, l’Italia è un Paese immobile e non è sempre è solo colpa dei politici o della burocrazia. La capacità di spesa pubblica sarà sempre minore e se quella privata, e qui quanto sarebbe strategico il terzo settore!, non viene valorizzata e non si valorizza da sola, il loop negativo diventerà costante e ci porterà in sabbie mobili ben più pericolose delle attuali.

Fanno ridere quelli che cercano il pessimismo o l’ottimismo nei dati macroeconomici. Dovremmo cercarli in noi, nella nostra capacità di vivere diversamente una crisi che non comprendiamo ancora. Senza false illusioni o facili entusiasmi. È vero, molto andrà peggio: non avremo mai un lavoro certo; ci troveremo anche a dover affrontare la disoccupazione; i bisogni della famiglia saranno sempre più costosi; dovremo lavorare fino ad oltre i 70 anni; se avremo una pensione sarà bassa; se ci indebiteremo con un mutuo per la casa vivremo di privazioni e poi quando lo avremo finito di pagare la casa sarà da ristrutturare; e poi tutti gli imprevisti. E la salute ci accompagnerà?

Queste litanie preoccupano anche i genitori, figuriamoci chi deve ancora costruire tutto. Ma la domanda di fondo, che poi uno si fa con curiosità quasi morbosa, è: ma alla fine come saremo? Come vivremo?

E alla fine, dico io, ma non saremo poi anche come vorremo essere? E se la casa è un problema, perché non condividere gli spazi? Se i mutui sono inaccessibili, perché non cercare altre strade? Se il rifugio nel privato familiare è un lusso che non ci possiamo più permettere, perché non costruire relazioni sociali di aiuto reciproco? Se il lavoro non c’è perché non provare ad inventarselo? Se la pensione non ce l’avremo perché non provare a vivere con più benessere, più equilibrio, più sobrietà per prepararsi al futuro? Insomma, reagire no? Nulla di originale, ma facciamolo. Difendendo i diritti certo, ma curando il benessere e le relazioni sociali.

Non è che invece di quello che avremo accumulato saremo quello che avremo condiviso?

Magari così scopriremo fra 40 anni che la nostra epoca triste non ci ha troppo contagiati e la renderemo, almeno per noi, memorabile.


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