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A Berlino rifugiati e residenti si organizzano per fronteggiare l’emergenza. Il racconto della community organizer Christiane Schraml

di Diego Galli

Ogni giorno a Berlino arrivano fino a 500 persone. Da mesi. La città sembra essere nel caos, tra palestre scolastiche sequestrate per alloggiare tutti, file che durano giorni, e 15.000 pratiche di registrazione arretrate. LaGeSo, l’ufficio dove vengono registrati i rifugiati e ogni mese devono essere rinnovati i permessi, è il simbolo di una crisi amministrativa divenuta politica.

Un’organizzazione che tenta di unire gruppi della società civile e rifugiati, sta provando a portare le istituzioni ad affrontare la situazione. Si chiama DICO e usa il “community organizing” per creare relazioni e fiducia tra vecchi e nuovi cittadini. Hanno già ottenuto una prima vittoria con l’apertura dei tendoni riscaldati anche durante la notte per accogliere le centinaia di persone in fila, costrette fino a pochi giorni fa a passare la notte al gelo sul marciapiede.

ODD ANDERSEN / AFP

“Le persone parlano in Germania di una crisi dei rifugiati”, ci dice Christiane Schraml, una community organizer di DICO. “Nella mia esperienza, però, molte persone a Berlino e in Germania sono ben disposte verso i rifugiati a vogliono aiutare e dare supporto a questi nuovi vicini a diversi livelli, far funzionare l’accoglienza. Ma quella che abbiamo davanti è una sorta di crisi amministrativa che sta divenendo politica”. Lo scandalo LaGeSo infatti sta creando tensione all’interno della coalizione che governa Berlino, con il sindaco Michael Müller della SPD che ha chiesto e ottenuto le dimissioni del direttore del centro Franz Allert, la cui responsabilità ricade sull’assessore ai servizi sociali Mario Czaja della CDU.

Christiane, per spiegare la situazione, fa l’esempio di un giovane rifugiato, Khalil. “Ha 21 anni, è siriano ed è in Germania da soli 3 mesi. Appena arrivato ha avuto un voucher per un ostello. Quando ho incontrato Khalil il suo voucher era scaduto da 13 giorni. Doveva andare a LaGeSo per rinnovarlo e trovare un altro alloggio negli ostelli o in uno dei campi. Inoltre, non aveva neanche un soldo, né vestiti invernali, nessuna assistenza medica. Di base era senza dimora. Quando gli ho chiesto dove dormiva si è messo a ridere e mi ha indicato LaGeSO. Mi ha presentato anche 12 o 15 giovani uomini tutti nella stessa situazione”. I rifugiati, anche una volta registrati, devono tornare ogni mese a LaGeSo per veder rinnovati i loro benefici, ma il centro è in grado di processare solo 150 pratiche di questo tipo al giorno. Quindi c’è un enorme arretrato. Ogni giorno 700 persone arrivano a LaGeSo con un pezzo di carta che dice che hanno un appuntamento quel giorno, ma la loro procedura non viene mai evasa.”

La tua organizzazione sta tentando di lavorare su queste questioni. Da dove siete partiti?

“Quello che abbiamo fatto è stato creare un team con leader della nostra organizzazione e rifugiati e abbiamo annunciato la nostra richiesta al sindaco Muller e a Mario Czaja, che è il responsabile per LaGeSo. Abbiamo reso chiara la nostra richiesta che le tende dovevano essere aperte, così che le persone non devono stare in fila di notte. Abbiamo portato una delegazione di circa 30 persone, leader da moschee, chiese, organizzazioni locali e rifugiati, e abbiamo chiesto di parlare con Muller e Czaja. Abbiamo portato la stampa con noi che è stato molto utile. Alla fine siamo riusciti a far venire Czaja che ha incontrato la delegazione. C’erano le telecamere a filmare e una delle nostre leader, una donna musulmana, lo ha affrontato con delle domande. Era molto gentile, ma molto persistente, e continuava a tornare sulla domanda: ‘quando aprirete le tende’. E dopo un po’ di discussione abbiamo avuto il suo impegno ad aprire entro 3 giorni. Quindi la notte scorsa siamo andati per verificare se manteneva le sue promesse, abbiamo portato con noi la televisione, e abbiamo verificato con felicità che le tende erano aperte. Quindi questo è un passo molto piccolo in questo grande caos che circonda la questione dei rifugiati, ma per noi è molto importante non solo perché le persone non si congelano più all’aperto, ma anche perché è stata la prima vittoria per la quale le persone nella nostra organizzazione hanno combattuto insieme con i rifugiati”.

La delegazione di Dico con Christiane Schraml (foto a sinistra, ultima a destra) e l’incontro con l’assessore Czaja (foto a destra)

Puoi dirci qualcosa di più sulla tua organizzazione? Hai parlato di leader, ma anche di moschee, chiese, gruppi locali e rifugiati. Come fate a portare tutti questi gruppi diversi a lavorare insieme?

“Quello che facciamo è chiamato community organizing. Un approccio di base per organizzare la tua comunità perché abbia più potere e per portare insieme persone che solitamente non stanno assieme, e che solitamente non hanno neanche relazioni l’una con l’altra. A Berlino al momento abbiamo 3 organizzazioni in 3 diverse parti della città. Abbiamo l’adesione all’incirca di 90 gruppi, tra cui molte moschee, molte chiese, gruppi locali, tutti i tipi di organizzazioni della società civile. Quello che facciamo è tentare di trovare leader e portare i leader di queste organizzazioni insieme. Per esempio in una moschea un leader può essere un imam, ma può anche essere la giovane donna musulmana che conosce tutti perché è cresciuta in quella moschea ed è una persona di fiducia e una persona che vuole portare un cambiamento nella città. Quindi cerchiamo persone così e le portiamo insieme, costruiamo relazioni tra loro, e di base cerchiamo di creare fiducia tra di loro. Poi i leader lavorano insieme sui problemi che vogliono affrontare. Cerchiamo di essere una voce per le persone dentro la città. E parte del nostro lavoro ora è quello di cercare leader all’interno della comunità dei rifugiati. Sono persone non soltanto istruite, ma anche di grande forza di volontà. Le persone che hanno fatto un viaggio per arrivare in Germania sono davvero determinate, possono portare grandi benefici a questa città”.

Sappiamo che esiste anche un’opposizione interna rispetto all’arrivo di così tanti rifugiati. C’è questa tensione anche all’interno delle organizzazioni con cui lavorate? E se sì come tentate di affrontarla?

“Direi che nella nostra organizzazione, siccome la nostra base è ampia, abbiamo tutti i tipi di persone e opinioni, per cui dobbiamo affrontare la stessa tensione a cui tu fai riferimento forse riferendoti ai media. Quello che facciamo sono gli incontri uno a uno, che significa conversazioni faccia a faccia in un numero molto elevato. In questo modo ognuno può raccontare la propria storia, ognuno può parlare delle preoccupazioni che ha, ma la chiave che abbiamo trovato è portare diversi tipi di persone insieme e farle confrontare e ascoltare le proprie storie, ed è una chiave importante per spostarsi dalle grandi discussioni politicistiche, come quanti rifugiati possiamo accogliere, e portare il tutto al livello di un’esperienza personale con gli altri, del tipo ‘ho incontrato Khali, e Khali è un ragazzo che vuole davvero fare qualcosa della sua vita, lo trovo gentile e vedo che è una brava persona per la nostra città’. Quindi riporti tutto a un’esperienza personale diretta, e penso che è una chiave per costruire fiducia e nuove comunità”.


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