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La sfida educativa, quella più importante

di Dino Barbarossa

Negli scorsi giorni ho partecipato a un'iniziativa promossa da un importante e attivo ente di formazione professionale all'interno del quale discutere di “Azioni di contrasto alla dispersione scolastica e al disagio sociale”. Ore intense, cariche di contributi che mi hanno conermato come la sfida educativa sia per la nostra società quella più importante, quella decisiva.

Prendiamo atto del fatto che manca alla nostra cultura moderna la capacità di connettersi con le persone, l’uomo si priva della relazione con troppa facilità, preferisce quelle virtuali e in genere seleziona le relazioni in base all’affinità.

Questa difficoltà, non necessariamente voluta, ci sta portando velocemente verso l’indifferenza della Comunità ed è ormai diventata un’ideologia. Una condizione questa che ha certamente portato ad un avanzamento di alcuni diritti soggettivi, ma ha potenziato la cultura dello scarto, ha dettato un’agenda in cui sono evidenti le diseguaglianze sociali.

L’assenza del padre – l’insieme delle regole del vivere civile e relazionale – lascia un vuoto incolmabile nei figli. C’è un evidente processo di svalutazione del padre, che non abbraccia solo una dimensione individuale, ma anche quella più ampia: sociale. Una società senza padre è una società che rifiuta l’autorità, nonché il senso religioso e dunque la capacità di dare un significato, una traccia ben definita alla propria esistenza.

Si pensi a cosa vuol dire ciò per quelle persone che sono “in formazione”, che stanno strutturando, affiancati dagli adulti, la loro personalità e che saranno poi chiamati a “dirigere” le sorti del mondo. È evidente la loro difficoltà ad organizzarsi ed orientarsi, come sono evidenti le differenti opportunità che spettano a seconda della parte di città o di mondo in cui si nasce e si cresce.

Le Istituzioni non sono più capaci di arginare la multiforme e crescente povertà educativa, ci provano con interventi che arrivano quasi sempre quando il disagio è conclamato, perché quando il disagio è nascosto “non si vede” e tantomeno si combatte. Sempre più sono le situazioni in cui le persone “cadono” nel baratro e non hanno le forze per risalire la china, una condizione in cui i minori sono la parete più vulnerabile, quelli che subiscono le conseguenze di una condizione che mette a repentaglio la dignità, il rispetto, la fiducia: spesso tutto questo è vissuto in solitudine.

Questo disagio spesse volte sfocia in violenza e in devianza, trasforma persone miti in “delinquenti”, verso una deriva che inquina case, condomini, quartieri, città. Perdiamo alla vita civile interi pezzi delle nostre città e la responsabilità non è certo di chi li abita.

La crescita armoniosa di un bambino è frutto anche e soprattutto del contesto sociale in cui vive, si alimenta delle relazioni con gli adulti di riferimento, a partire dai genitori e dagli educatori scolastici. E se questi hanno abdicato al loro ruolo, quella crescita non avviene o avviene in maniera distorta.

Penso che occorrerebbe garantire luoghi di “compensazione educativa” nei contesti più difficili, una scuola “sempre aperta” ed attenta ai bisogni di ogni persona, una rete ampia ed efficace che tiene insieme tutte le realtà publbiche e private che hanno a cuore la vita dei bambini: più che professionisti, occorrono educatori che sappiano testimoniare con la loro vita un approccio positivo alla stessa. Una “rete del bene” che superi e sconfigga quella del male.

Questo è il metodo – a mio avviso l’unico – per ricostruire un sano pensiero comunitario, una nuova identità di popolo pensante, di società che esprime cultura, di comunità che si unisce per uno scopo.

La domanda a mio avviso più importante allora è questa: perché non pianifichiamo le risorse sulla base dei bisogni e con un approccio di sistema e ci limitiamo ad utilizzarle per mantenere in vita un’offerta inefficace Basterebbe avere strumenti validi e continui di verifica dell’impatto sociale delle iniziative messe in campo, per capire ciò che funziona e ciò che non funziona.

Abbiamo bisogno di ricominciare a connettere le persone, una capacità che si implementa con la conoscenza, una conoscenza che si implementa con la solidarietà, una solidarietà che si implementa con la prossimità.

Si può fare. Si deve fare. Perché il capitale umano in formazione è ciò di più importante che abbiamo.


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