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Essere o non essere… strategici

di Bernardino Casadei

Uno dei benefici che la filantropia istituzionale può offrire ai propri donatori è quello di poter essere strategici. Ma cosa significa essere strategici? Gli americani, con il loro consueto pragmatismo, ci danno delle indicazioni immediatamente operative. Operare in modo strategico significa:

  1. Darsi degli obiettivi chiari e proporzionali alle proprie risorse;
  2. Concentrare i propri sforzi nel cercare di conseguirli;
  3. Dotarsi di indicatori che permettano di capire se si è sulla strada giusta.
Si tratta di indicazioni tutto sommato semplici, eppure è molto raro trovare enti che le sappiano mettere in pratica e quindi, se vogliamo rifondare le fondazioni, si tratta di capire come mai sia così difficile essere strategici e ciò malgrado la crisi presente ce lo imponga con sempre maggior forza.

Il primo ostacolo deve probabilmente essere cercato nell’idiosincrasia che contraddistingue l’intero privato sociale italiano nei confronti degli indicatori. Da un lato si nota come la misurazione nel sociale sia estremamente difficile e quindi molto onerosa, dall’altro si ricorda come sia altrettanto complesso capire se gli effetti siano o meno imputabili al proprio lavoro. In realtà, quello di cui c’è bisogno sono dei dati approssimativi il cui scopo è quello di aiutarci a porci quelle domande che ci permettano di analizzare criticamente le attività poste in essere e quindi identificare modalità che ci aiutino a crescere e a migliorare. Si tratta di comprendere come scopo della valutazione non sia giudicare e nemmeno elaborare analisi scientificamente rigorose, ma dotare gli enti di indicatori semplici e tempestivi che aiutino a prendere decisioni in modo consapevole ed efficace.

L’altro grande ostacolo deve essere cercato nella tendenza ad affidarsi alle procedure come se i risultati non potessero che seguire ad una loro corretta applicazione. In una realtà come quella sociale, dove il successo dipende in gran parte dalle relazioni personali, il mero rispetto delle procedure rischia di rivelarsi controproducente. Non si tratta certo di assolutizzare quel conseguimento ad ogni costo degli obiettivi che è una delle cause della presente crisi, ma di riscoprire quell’etica della responsabilità di cui abbiamo un così evidente bisogno. Per questo bisognerebbe avere il coraggio di spostare l’attenzione dalle procedure, al fatto che, nel rispetto della dignità della persona, sia stato fatto tutto il possibile per conseguire il risultato, nella consapevolezza che la realtà può sempre trascendere i nostri sforzi.

Infine bisogna riconoscere come non di rado, spesso per evitare di fare delle scelte e di essere quindi costretti a stabilire priorità, gli obiettivi siano così ampi e vaghi che è impossibile trasformarli in indicazioni operative. Diventa così molto difficile definire con chiarezza le azioni da perseguire e l’impatto desiderato. Inoltre, essendo le risorse di cui si dispone assolutamente inadeguate per conseguire l’obiettivo voluto, si finisce per operare come quel bambino che voleva svuotare il mare con un cucchiaino. Con questo non si vuole frenare le ambizioni di una filantropia istituzionale che deve avere il coraggio di mirare alto, ma ricordare come nessuna impresa può riuscire senza un’attenta analisi delle risorse di cui si dispone e che, per cambiare il mondo, bisogna iniziare col modificare qualcosa di molto più piccolo e ben definito.

Non riuscire a darsi una strategia non solo impedisce di sfruttare al meglio le proprie potenzialità, ma tende inesorabilmente  trasformare gli enti d’erogazione in elemosinieri ed è forse questa una delle cause che spiega come mai siano diverse le realtà che si trasformano in enti operativi. Distribuire risorse può certo farci sentire importanti e apprezzati al di là dei nostri meriti, ma non è la lusinga che di norma vogliono i donatori. Questi ultimi desiderano poter provare la soddisfazione di realizzare qualcosa di bello, qualcosa di cui essere fieri, qualcosa che li gratifichi nel silenzio della propria coscienza. L’operatività, imponendo un confronto continuo con la realtà, costringe ad essere strategici. L’erogazione, al contrario, proprio mentre potrebbe offrire l’opportunità di conseguire risultati ben più importanti, non obbliga ad esserlo. Privi di questo vincolo, si corre il rischio di operare senza bussola. La prova di ciò la possiamo rilevare nella difficoltà che i responsabili di molti enti d’erogazione incontrano quando devono illustrare in poche parole quanto realizzato, difficoltà che chi gestisce un ente operativo normalmente non ha. Per questo la capacità di sviluppare un approccio strategico è per gli enti d’erogazione molto di più di un obbligo morale; si tratta di una vera e propria esigenza vitale, di cui però non sempre siamo pienamente consapevoli.


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