Attivismo civico & Terzo settore

Trovare soluzioni o coltivare responsabilità?

di Bernardino Casadei

A prima vista lo scopo di un ente filantropico dovrebbe essere quello di produrre beni e servizi per il bene della comunità. In realtà ci si è presto resi conto che le risorse che la filantropia istituzionale può mobilitare sono infinitesimali se confrontate ai bisogni che ci circondano. I servizi e i beni che possono essere sviluppati grazie al suo contributo rischiano di apparire come la classica goccia in mezzo al mare. Per questo, se non vuole confinarsi all’irrilevanza, la filantropia deve essere capace di andare oltre, mostrando di poter svolgere un ruolo sociale ben più strategico ed importante.

Per molto tempo si è sperato che, grazie alle risorse che essa può mobilitare, sarebbe stato possibile trovare soluzioni ai tanti problemi sociali che minano la convivenza civile. Compito della filantropia istituzionale avrebbe dovuto essere quello di individuare le modalità operative più convincenti, sperimentarle e, quindi, una volta dimostrata la loro efficacia, promuoverne la più ampia diffusione possibile. Dobbiamo ammettere che i risultati non sembrano essere stati all’altezza delle aspettative e, malgrado le tante risorse investite e le innumerevoli iniziative di valore finanziate, non sembra che i problemi sociali con i quali ci confrontiamo siano migliorati in modo sensibile, anzi, soprattutto in questo momento di crisi, siamo chiamati a dover tamponare emergenze che si credeva avere definitivamente superato nel cammino della nostra civiltà.

Prima di abbattersi è necessario chiederci se questo fallimento dipende dall’inadeguatezza di chi guida la filantropia istituzionale o se, al contrario, non sia la logica conseguenza di un’errata impostazione del problema. Forse, è tempo di riconoscere che, soprattutto in campo sociale, non ci sono malattie, ma singoli malati, che, cioè, ogni situazione è unica ed irripetibile e la sua soluzione dipende in gran parte proprio dall’empatia che si riesce a creare fra l’operatore sociale e il soggetto in difficoltà, il quale è appunto soggetto e non mero oggetto dell’intervento. Le procedure, per quanto importanti, non possono mai sostituirsi all’impegno personale che, proprio perché personale, è unico ed irripetibile. Le modalità che hanno permesso di conseguire il risultato in un dato momento storico per delle persone ben determinate, non danno nessuna garanzia di poter essere replicate con analoghi risultati in altri contesti o in altri momenti.

In pratica, bisogna riconoscere che, in ambito sociale, non vi sono soluzioni che possano essere applicate seguendo, in modo più o meno meccanico, procedure elaborate a seguito di rigorose analisi scientifiche. I problemi non sono solo complicati, ma si rivelano complessi. Per risolverli spesso non sono necessari approcci oltremodo sofisticati, ma una forte capacità di adattamento che permetta di rispondere con rapidità e flessibilità al contesto e alle specifiche esigenze dei vari soggetti coinvolti.

Gli standard, i modelli, le procedure, non solo si rivelano spesso scarsamente efficaci, ma potrebbero trasformarsi in un importante ostacolo per chiunque abbia come obiettivo l’impatto e non il rispetto di determinati protocolli, i quali, per quanto sofisticati possano essere, non possono mai esaurire il reale, necessitando di essere sempre adattati ai bisogni del momento. Un sistema, come il nostro, che premia il rispetto delle procedure e che di fatto scoraggia la responsabilità di chi le modifica per venire incontro ai bisogni specifici, quale unica vera via per conseguire l’impatto desiderato, non può che generare effetti controproducenti come quelli che ognuno di noi può descrivere nella sua vita quotidiana. Si finisce infatti col dimenticare che le procedure sono un mezzo, un sostegno a cui appoggiarsi in caso di necessità, ma non il fine dell’azione, la quale deve necessariamente avere come obiettivo l’impatto.

Se questa analisi si rivelasse esatta, essa non solo spiegherebbe il sostanziale fallimento di tanti investimenti che pure hanno conseguito importanti risultati positivi, ma imporrebbe un cambiamento radicale di rotta, dato che l’approccio volto ad individuare soluzioni, non solo non può funzionare, ma finisce per avere un effetto controproducente nel conseguimento dei veri obiettivi di ogni azione filantropica. Invece di rincorrere astratti modelli, bisogna creare una cultura di responsabilità verso il risultato, pur nella consapevolezza che spesso esso può sfuggirci malgrado tutti i nostri sforzi.

Per operare in funzione del risultato, l’operatore non solo ha bisogno di strumenti adeguati, ma anche della flessibilità nel decidere se e come utilizzarli. Per questo più che di mansionari e di manuali operativi, è necessario dotarsi degli strumenti per raccogliere informazioni, trasformarle in sapere e quindi generare quella saggezza di cui abbiamo un così evidente bisogno, saggezza che non può non mostrarci come problemi multidimensionali non possono, per definizione, essere affrontati da un unica prospettiva, ma necessitano del coinvolgimento di una pluralità di attori.

Coltivare la responsabilità di chi non si accontenta di fare il proprio, ma si impegna affinché l’obiettivo desiderato possa effettivamente essere conseguito, impone di investire risorse per rafforzare le capacità operative degli enti, generare sapere e saggezza, promuovere relazioni e collaborazioni. La filantropia istituzionale può sicuramente svolgere un ruolo importante in questa direzione, ma deve ripensare i propri paradigmi, sottoporre a rigorose critiche anche quelle che spesso vengono passivamente accettate come best practices, ridefinire i propri obiettivi. L’assemblea di Assifero vuole essere un’occasione per stimolare un confronto libero e franco su tali aspetti, così da contribuire a ridefinire un orizzonte che possa contribuire a donare entusiasmo e speranza ad una società che sembra aver dimenticato le proprie immense potenzialità.


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