Sezioni

Attivismo civico & Terzo settore Cooperazione & Relazioni internazionali Economia & Impresa sociale  Education & Scuola Famiglia & Minori Leggi & Norme Media, Arte, Cultura Politica & Istituzioni Sanità & Ricerca Solidarietà & Volontariato Sostenibilità sociale e ambientale Welfare & Lavoro

Attivismo civico & Terzo settore

Standard o impatto

di Bernardino Casadei

Soprattutto nei servizi sociali e sanitari domina la convinzione che il modo migliore per migliorarli sia attraverso l’introduzione di nuovi e più sofisticati standard. In effetti, a prima vista, la soluzione sembra la più corretta: gli standard sono misurabili, oggettivi e il loro conseguimento dipende quasi esclusivamente dalle capacità gestionali ed operative dell’ente. Sembra anche la modalità più corretta per confrontare lo stesso servizio realizzato da organizzazioni aventi natura diversa: pubbliche, private, profit e non profit. Si ha quindi una base per stabilire quale sia il soggetto che dovrebbe erogarlo in quanto in grado di conseguire gli standard stabiliti al costo inferiore.

In realtà, questa soluzione, che pure ha sicuramente permesso di contrastare tante distorsioni, sta mostrando chiaramente i propri limiti e chiunque guardi con occhio spassionato la situazione attuale concorderà come sia sempre più evidente che il rispetto degli standard non sia affatto garanzia di impatto. Gli standard, così come si sono evoluti, finiscono infatti per far lievitare i costi richiedendo funzionalità sempre meno sostenibili; impongono la crescita dimensionali degli enti con conseguenze negative in termini relazionali; riducono, al fine di conseguire la massima efficienza, la flessibilità e quindi, di fatto, la stessa qualità del servizio; non sono in grado, al di là di ogni possibile sofisticazione, di contemplare tutte le possibili situazione; favoriscono quel rovesciamento dei valori per cui i mezzi si trasformano in fini e i fini, le persone, diventano dei mezzi.

Assistiamo così al proliferare degli adempimenti, adempimenti che diventa sempre più difficile rispettare. Risorse ingenti vengono indirizzate in investimenti che forse non sono così indispensabili e che, a volte, in particolari contesti, sono addirittura dannosi, ma che vengono imposti dalle normative vigenti. In nome di un meglio, spesso peraltro astratto, si impedisce il bene e quindi ci si priva di strutture che potrebbero contribuire a migliorare in modo consistente il benessere di tante persone, ma che non possono diventare operative in quanto non compatibili con tutti gli standard vigenti. Si assiste, per esempio, al proliferare del numero e delle tipologie dei servizi accessori che finiscono per occupare una quota rilevante della superficie disponibile o, addirittura, ed è successo a Roma, che una casa famiglia debba inserire al proprio interno una camera mortuaria.

Per poter essere sostenibili diventa necessario poter ripartire i costi fissi imposti dagli standard su un numero crescente di utenti. Le relazioni diventano perciò necessariamente più formali e burocratiche. La dimensione umana che è un elemento fondamentale per il successo di gran parte delle attività sociali e sanitarie non può che passare in secondo piano. Esse inoltre devono subordinarsi alle regole dell’efficienza o di un’astratta sicurezza. I genitori non possono più portare ai propri figli alimenti fatti in casa o addirittura, vi sono casi, in cui i contatti avvengono in dei parlatoi. Se il protocollo indica una procedura, questa deve essere seguita, anche quando le particolari condizioni del soggetto alla quale viene applicata suggerirebbero un altro approccio. Gli standard, che possono di fatto contemplare solo marginalmente l’infinita variabilità che contraddistingue la vita umana, non possono per loro natura che imporre forme di rigidità. Così capita che, per determinati interventi, tutti devono essere dimessi dopo quel determinato numero di ore, poco importa se il soggetto stia effettivamente bene o se invece non sia chiaramente ancora a posto.

L’operatore cessa di essere responsabile nei confronti dell’utente; il suo compito è quello di rispettare le procedure e non di assistere l’utente. Si parte dal presupposto che la soddisfazione dei bisogni dell’utente verrà conseguita proprio dal rispetto delle procedure, ma tutti noi sappiamo che tale presupposto è manifestamente falso. L’operatore viene così deresponsabilizzato, la sua capacità empatica, che in questi ambiti è fondamentale, passa drammaticamente in secondo piano. Ciò che importa è la sua capacità di adempiere in modo efficiente a determinate funzioni.

Non è raro che gli stessi enti d’erogazione diventino vittime di quest’approccio e finiscano per imporre alle organizzazioni sostenute il perseguimento di standard che si rivelano necessariamente astratti. Tali vincoli vengono imposti spesso proprio gli enti più strutturati e meglio intenzionati, in nome della volontà di perseguire obiettivi oggettivi e misurabili, obiettivi che però non sempre riescono a cogliere l’essenza del bisogno. Così si finisce per concentrarsi in forme di misurazione di output nella speranza che queste possano essere dei proxy di quell’outcome che tutti dichiarano di perseguire. Speranza che però troppo spesso rischia di trasformarsi in un’illusione che non di rado genera l’opposto dei risultati sperati.

Concentrarsi sull’impatto nella consapevolezza dei nostri limiti, significa certo riconoscere che esso di norma dipende da fattori che non possiamo né prevedere, né controllare, ma anche riaffermare la responsabilità di ciascuno nel dover dimostrare innanzitutto a se stesso e poi alla comunità nel suo complesso, che non ci si è limitati a seguire le procedure o a produrre quanto stabilito, ma che si è fatto tutto il possibile per fare ciò che è giusto. Si tratta in altri termini di riscoprire quel processo di responsabilizzazione personale, le cui fondamenta sono state minate da una razionalità formale e strumentale che, riducendo tutto a funzioni e procedure, sta finendo con negare la dimensione divina della persona e col privare la nostra civiltà di quegli orizzonti che soli possono riaccendere la speranza di cui abbiamo un così evidente bisogno per ricostruire una società a misura d’uomo.

La filantropia istituzionale, perché potenzialmente libera dai tanti condizionamenti che caratterizzano il mondo in cui viviamo, può dare un contributo fondamentale nell’aiutare le organizzazioni caritatevoli e, più in generale, l’intera società a riscoprire queste verità e quindi dare un contributo fondamentale a quello sviluppo che è illusorio sperare di conseguire riaffermando proprio le modalità operative che hanno generato la crisi in cui viviamo. Obiettivo dell’Assemblea di Assifero sarà proprio quello di esplorare tali opportunità, per capire se le fondazioni italiane sono pronte a farsi carico di una simile responsabilità.


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA