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Attivismo civico & Terzo settore

Le Fondazioni

di Bernardino Casadei

Gian Paolo Barbetta ha pubblicato presso Il Mulino un volumetto dal titolo Le Fondazioni, il motore finanziario del terzo settore. Si tratta di un testo agile e di facile lettura che offre una piacevole introduzione al mondo delle fondazioni. Non si tratta di un testo scientifico, ma di un’opera divulgativa e, proprio come recita il nome della collana nella quale è inserito, il suo obiettivo è chiaramente quello di aiutare il lettore a “farsi un’idea”.

Probabilmente per meglio conseguire questo obiettivo, l’autore non ha ritenuto opportuno inserire quelli che sono gli sviluppi più recenti della filantropia istituzionale. A parte il giudizio forse un po’ riduttivo sulla venture philanthropy, giudicata una “tardiva scoperta dei pregi della finanza da parte dell’universo filantropico (dopo che il resto del mondo ne aveva chiaramente mostrato gli immancabili difetti)” e, assieme al microcredito, classificata come “moda del momento”, manca qualsiasi accenno al cosiddetto mission investment, ossia alla decisione di gestire il patrimonio, non solo come una fonte di reddito con cui finanziare le erogazioni, ma anche come strumento per conseguire obiettivi coerenti con la propria missione.

Naturalmente l’autore è ben consapevole di questa modalità, anche perché ha collaborato attivamente all’implementazione del primo program related investment promosso da Fondazione Cariplo, ma nel paragrafo sulla gestione del patrimonio non se ne fa cenno, benché si tratti di uno degli aspetti che, soprattutto dopo le recenti crisi finanziarie, ha maggiormente attirato l’attenzione degli addetti ai lavori. Da un lato si vuole evitare che per far rendere il proprio patrimonio si finisca per finanziare attività che contribuiscono a creare i problemi che si vorrebbero lenire con le erogazioni, dall’altro ci si sta rendendo conto di come il patrimonio possa essere una leva interessante per conseguire i propri obiettivi filantropici. Così, oltre ad utilizzare in modo coerente coi propri valori i diritti di voto che nascono dal possedere quote di società, è possibile utilizzarlo per finanziare imprese sociali o altre attività economicamente rilevanti che, con la loro attività, possano contribuire a conseguire importanti obiettivi filantropici.

Un altro aspetto che può sorprendere è l’assenza nel paragrafo sulle fondazioni di impresa di ogni accenno al concetto del valore condiviso, ossia al’idea che si sta rapidamente diffondendo soprattutto fra le grandi multinazionali, secondo la quale, la filantropia non dovrebbe essere un costo, ossia un’attività benemerita finanziata rinunciando ad una parte degli utili, e quindi necessariamente destinata ad essere abbandonata nei momenti di difficoltà, ma essere parte integrante della strategia volta a garantire la sostenibilità nel lungo periodo dell’impresa stessa. Alla base di questo ragionamento vi è la constatazione che l’interesse pubblico non è sempre e  necessariamente in contrasto con quello privato, ma che vi sono importanti aree d’intersezione e sovrapposizione per cui è possibile conseguire entrambi gli obiettivi contemporaneamente. Si pensi solo alla formazione delle nuove generazioni, la quale è certamente un’attività di pubblica utilità, ma è anche un’esigenza fondamentale per le imprese, le quali, per prosperare hanno bisogno di personale adeguatamente preparato. Ma si pensi anche alla coesione sociale e si consideri come, in una società disgregata, diventi difficile produrre e confrontarsi con una sempre più agguerrita competizione internazionale.

Infine bisogna rilevare come nella riflessione sul fine dell’attività erogativa vengano indicate solo tre modalità: quella dello sponsor, quella di soggetto che vorrebbero risolvere i problemi e quella dell’ente sperimentatore. Sebbene siano senz’altro le modalità più diffuse, bisogna riconoscere che è in corso un profondo ripensamento di tali impostazioni, anche considerato che i risultati conseguiti si sono rivelati molto inferiori rispetto a quanto sperato. Per questo un numero crescente di fondazioni sta approfondendo due nuove strade:

  1. utilizzare le proprie risorse per influire sulle politiche pubbliche;
  2. rafforzare le capacità di auto organizzarsi e di rispondere ai propri bisogni da parte della società civile.
La prima strategia, che viene spesso definita con il termine di advocacy, parte dalla constatazione che i soggetti che hanno in mano le leve per modificare le politiche pubbliche non sono certamente gli enti filantropici, i quali, però, possono sfruttare la loro flessibilità per cercare di influire su chi ha a disposizione queste leve attraverso attività di informazione e sensibilizzazione, anche nei confronti dell’intera opinione pubblica. Studi recenti fatti a cura del National Committee for Responsive Philanthropy, un ente indipendente che studia l’efficacia delle fondazioni, hanno mostrato come ogni dollaro investito in questa direzione ne mobilita altri 115, con un ritorno sugli investimenti chiaramente enorme.

Sempre più spesso poi gli enti filantropici comprendono come, in una società complessa ed in continua evoluzione come la nostra, il loro compito non sia quello di trovare soluzioni attraverso la selezione del miglior progetto, ma piuttosto quello di aiutare le organizzazioni che operano con finalità d’utilità sociale nel darsi le competenze per elaborare di volta in volta le risposte più efficaci. Per conseguire questo risultato le fondazioni più sensibili operano principalmente su tre direttive:

  1. sviluppare la capacità di operare in funzione dell’impatto e non del rispetto di procedure, per quanto complesse e sofisticate esse possano essere;
  2. promuovere gli investimenti finalizzati al conseguimento della sostenibilità;
  3. favorire l’emergere di relazioni e di collaborazioni.
Per conseguire quest’ultimo obiettivo, dopo aver constato come gli incentivi economici alla realizzazione di partnership non abbiamo generato i risultati sperati, ma favorito l’emergere di comportamenti opportunistici, alcuni enti d’erogazione stanno sperimentando l’impatto collettivo, un approccio che, coinvolgendo una pluralità di soggetti provenienti da ogni settore, favorendo l’emergere di una visione comune, individuando degli indicatori condivisi e dando vita ad una serie di attività mutualmente rinforzanti ha potuto conseguire risultati importanti ed oggettivi, là dove altre modalità avevano fallito. Del resto dovrebbe ormai essere evidente a tutti come, per poter ottenere un qualche impatto, sia necessario operare su più fronti contemporaneamente.

Il mondo della filantropia è in grande fermento, alla continua ricerca di modalità per affermare la propria identità, evitando di essere considerato un semplice bancomat o un puro succedaneo da utilizzare in momenti di crisi. Capirne le dinamiche può forse aiutare la nostra società civile ad individuare prospettive originali che possano aiutarci a superare la presente crisi ritrovando quella speranza senza la quale ogni nostro sforzo è necessariamente destinato al fallimento. Da qui l’importanza di testi come quello recentemente pubblicato da Gian Paolo Barbetta, primo necessario passo per impostare quel dibattito di cui il nostro Paese ha un così evidente bisogno.


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