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I network, questi sconosciuti

di Bernardino Casadei

Non vi è ormai chi non parli dell’opportunità se non della necessità di fare rete. In effetti, soprattutto in un Paese come il nostro, dominato da organizzazioni medio piccole, la rete rappresenta probabilmente la modalità più interessante per conseguire i propri obiettivi. Malgrado ciò, almeno nel mondo degli enti d’erogazione, sono ancora rare le riflessioni su cosa effettivamente significhi promuovere le reti, quasi che il problema fosse semplicemente di volontà, eventualmente da stimolare con adeguati incentivi economici e ciò malgrado l’esperienza di questi anni abbia ampiamente mostrato l’inadeguatezza di tale approccio.

L’ultima pubblicazione di GEO (Grantmakers for Effective Organizations): Cracking the Network Code è un primo interessante sforzo per cercare di colmare questa lacuna. Elaborata nell’ambito del progetto Scaling What Works, essa analizza alcune iniziative di grande successo per trarne delle indicazioni pratiche utili agli enti d’erogazione interessati a promuovere i network. In particolare emerge da questa riflessione la necessità di cambiare radicalmente alcuni approcci che hanno a lungo dominato le teorie del management, incentrate spesso sull’efficienza organizzativa interna, l’implementazione di procedure rigorose, la promozione della propria immagine e l’opportunità di porsi come perno a cui tutti gli altri debbano fare riferimento. Ora, secondo gli autori del rapporto, la promozione delle reti presuppone una mentalità radicalmente diversa.

Bisogna infatti riconoscere come normalmente la partecipazione ad una rete dia dei benefici limitati da un punto di vista gestionale. Essa infatti è costosa in termini di risorse umane e non di rado richiede rinunce e sacrifici in termini di crescita della propria organizzazione. Il suo vero valore aggiunto deve essere cercato nella sua capacità di generare impatto. Per questo il fine di una rete deve essere la missione. La domanda non deve essere come, grazie alla rete, posso operare in modo più efficace ed efficiente, ma piuttosto come la rete può permettere di conseguire la propria missione in modo più efficace ed efficiente, indipendentemente dall’impatto sulla propria struttura organizzativa. In altri termini la rete ci impone di riscoprire il vero significato del privato sociale che nasce per rispondere a bisogni, non per creare istituzioni.

Per questo il fondamento di una rete deve essere cercato nella fiducia. I protocolli e le procedure possono per questo rivelarsi controproducenti. Essi infatti favoriscono forme di deresponsabilizzazione: l’importante è rispettare formalmente quanto stabilito non fare del proprio meglio e, a volte, legittimano comportamenti sostanzialmente scorretti, anche se formalmente corretti. La fiducia invece presuppone la disponibilità a scommettere nell’altro, nella consapevolezza che ogni scommessa è rischiosa per definizione, ma è impossibile generare fiducia se non si dimostra di averla. La sanzione arriverà eventualmente solo a posteriori, nella consapevolezza che tradire la fiducia altrui è atto ben più grave che il mancato rispetto di qualche norma formalmente concordata.

Il tentativo di surrogare la fiducia con norme e procedure si è rivelato controproducente e oggi dobbiamo riconoscere come essa sia diventata un bene molto raro e prezioso. Rigenerarla, anche attraverso la promozione di reti è una finalità altrettanto importante dei benefici concreti che queste forme di collaborazioni possono sviluppare. Perché ciò possa avvenire occorre trovare la forza per rompere il circolo vizioso fatto di sospetti reciproci che mina la stessa convivenza civile. Gli enti d’erogazione potrebbero, da questo punto di vista, svolgere un ruolo importante nell’avviare questo processo, dando per primi il buon esempio e ripensando le proprie procedure affinché esse siano fondate appunto sulla fiducia, con tutti i rischi, ma anche i benefici che ciò può comportare.

Se la fiducia è il fondamento delle reti, l’ossigeno che le permette di svilupparsi deve essere cercato nell’umiltà. Non occorre essere dei fini psicologi per sapere che l’ego è il principale ostacolo ad ogni collaborazione. Per questo è necessario sempre ricordarsi che l’obiettivo è il conseguimento della missione e non lo stabilire chi abbia dato il maggior contributo. In realtà, ogni apporto è fondamentale e, a volte, basta l’assenza di un elemento apparentemente marginale per vanificare lo sforzo di tutti. Per questo, soprattutto per gli enti d’erogazione, è importante imparare a lavorare dietro le quinte e cercare di sfruttare le opportunità di comunicazione per valorizzare quelle realtà che possono averne maggiore giovamento nel perseguimento della missione comune, indipendentemente dalla loro oggettiva importanza.

Il risultato di tutto ciò sarà appunto una rete fatta da tanti nodi e non, come troppo spesso accade, un perno attorno al quale ruotino tutti gli altri soggetti. In questo modo potranno essere realmente valorizzate le tante energie presenti nella nostra società e creare un mondo che realmente promuova la dignità della persona.


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