Attivismo civico & Terzo settore

Ci vuole una storia

di Bernardino Casadei

In un momento storico in cui le ideologie sono in crisi e i consumatori stanno diventano sempre più immuni nei confronti dei messaggi pubblicitari, tutti ormai concordano nell’individuare nella concretezza delle storie la modalità più efficace per attirare l’attenzione dei propri interlocutori. Si tratta di un’ottima notizia per il privato sociale il quale, da questo punto di vista, giace su dei giacimenti praticamente inesauribili, ma non sempre gli enti non profit sanno cogliere questa opportunità.

Grazie alle esperienze maturate nell’ambito del Master per Promotori del Dono, è stato possibile capire come gli ostacoli principali non sono di natura tecnica, ma hanno a che fare con problemi ben più profondi che coinvolgono l’identità stessa degli enti non profit: un ceto senso di pudore; la tendenza a banalizzare la propria esperienza; una scarsa fiducia nei propri interlocutori che spesso nasconde anche un senso di superiorità morale nei confronti di coloro che non fanno parte del nostro mondo.

Non sono pochi gli operatori che temono che raccontare pubblicamente le loro storie sia un po’ come tradire la propria missione e sfruttare strumentalmente coloro che sono chiamati ad assistere. Certo che se l’obiettivo fosse solo quello di raccogliere donazioni, un simile sentimento sarebbe giusto. In realtà, attraverso le loro storie è possibile trasformare costoro da soggetti passivi della compassione altrui in agenti di cambiamento. Queste storie sono un’opportunità per dare a queste persone un fondamentale ruolo sociale: quello di umanizzare la nostra comunità permettendo a tutti noi di dare un senso al nostro agire e di vivere emozioni autentiche.

Un altro ostacolo che spesso impedisce agli enti di raccontare le loro storie nasce dalla banalità dello straordinario. Sono così abituati a vivere in mezzo a situazioni straordinarie che ai loro occhi queste appaiono banali, prive di attrattiva, quasi noiose. Da qui la tentazione a spettacolarizzare i loro racconti senza rendersi però conto che così li impoveriscono, in quanto li privano della loro autenticità. Si cerca di attirare l’attenzione moltiplicando gli aggettivi e le frasi ad effetto, quasi che la realtà che le sue contraddizioni e i suoi contrasti non fosse sufficiente ad attirare l’attenzione dei propri interlocutori, ma in realtà creando delle barriere e degli ostacoli spesso insormontabili.

Infine chi opera in questo settore spesso non riesce a resistere alla tentazione di trarre la morale, di lanciare proclami, di spiegare il vero e profondo significato di quello che stanno facendo. Dietro a questo atteggiamento si nasconde a volte l’idea che gli altri non capirebbero, che non bastano le evidenze dei fatti perché possano trarre le dovute conclusioni; è necessario che qualcuno come noi, che siamo diversi e in fondo migliori, dato che abbiamo dedicato la nostra vita per il bene degli altri, glielo spighi. Si tratta di un errore grave che finisce per minare la forza del racconto: se vogliamo che la nostra comunicazione sia efficace è necessario che il nostro interlocutore faccia proprio il nostro messaggio e non vi è modo migliore per conseguire questo obiettivo che lasciargli il piacere di scoprirlo.

Per attirare l’attenzione di una persona, coinvolgerla e mobilitarla niente è più potente di una storia, ma perché ciò sia efficace bisogna crederci e affidarsi alla sua forza senza cercare espedienti il cui unico effetto sarà di indebolirla. La riflessione sul dono, ossia su una relazione fondata sulla libertà, può aiutarci a scoprire ed approfondire anche questa verità.


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