Pacifismo

Dalle colpe degli altri, alle nostre corresponsabilità: tre domande a cui Alex Langer ci chiede di rispondere

Trent'anni fa oggi, Alex Langer si suicidava. Politico, saggista, costruttore di ponti, i suoi testi sono un faro nel mondo attuale, segnato da conflitti e crisi. Avere ragione da soli o schierandoci con chi la pensa come noi non serve a nulla. C’è sempre più bisogno di “intelligenza collettiva” che nasce dal dialogo fra vissuti differenti, dalla capacità di vedere le cose da una molteplicità di punti di vista divergenti. E infatti dalle esperienze nella ex Jugoslavia martoriata, ne è uscito con una idea positiva: la proposta di Corpi Civili di Pace Europei

di Marianella Sclavi

Il 3 luglio di trent’anni fa ci lasciava Alex Langer. Langer è stato tante cose insieme: un politico, un saggista, un giornalista, un ambientalista, un appassionato pacifista, un costruttore di ponti, un tessitore di reti, un “viaggiatore leggero”. Nato a Vipiteno (BZ) in una famiglia borghese, laica e liberale (il padre medico viennese di origini ebraiche, la madre farmacista tirolese), è stato una figura chiave del movimento politico dei Verdi in Italia e in Europa. Il suo impegno si concentrò su tre ambiti principali: una politica estera orientata alla pace e a relazioni più eque tra Nord e Sud, la promozione della conversione ecologica della società, dell’economia e degli stili di vita, e la creazione dei Corpi civili di Pace europei. Oggi il mondo sembra sbriciolarsi: dalla tragedia nella Striscia di Gaza, al nuovo fronte di guerra tra Israele e Iran. Dalle dichiarazioni scellerate in tema ambientale di Trump, all’invasione russa dell’Ucraina che dura da più di tre anni. Marianella Sclavi, esperta di arte di ascoltare e gestione creativa dei conflitti e co-fondatrice del Movimento Europeo di Azione Nonviolenta – Mean, mette in fila tre domande a cui oggi siamo chiamati a rispondere. E ritornare ad Alex Langer è una strada concreta per uscire da un meccanismo narrativo che costringe a schierarsi più che a cercare di capire.

Prima domanda: quante persone conoscete, impegnate nel sociale e in politica, che hanno sentito la necessità di fermarsi a riflettere pubblicamente sul rapporto fra l’educazione da loro ricevuta in famiglia, dai loro genitori e altri adulti autorevoli che hanno accompagnato la loro prima infanzia, e lo stile del proprio impegno nelle istituzioni e nella vita politica? 

Alex Langer ha spesso riconosciuto che alle origini della sua inusuale capacità di considerare le situazioni di disagio e conflitto come preziose occasioni di apprendimento, in cui in un certo senso tuffarsi per capire come trasformarle, anziché da cui fuggire, c’è l’educazione ricevuta dai suoi genitori. E che tutti i suoi impegni successivi sono stati orientati a ricostruire nella scuola, nei lavori di gruppo e perfino nei titoli dei primi giornali da lui fondati (Offenes Wort,”Parola aperta” ancora al liceo, Die Brücke,”Il Ponte”, nel 1967, il bilingue Tandem nel 1982), un clima morale e intellettuale con quella stessa apertura mentale. Le forme dell’azione politica principali da lui promosse e organizzate sono laboratori di riflessione collettiva sugli ostacoli che si frappongono al dialogo fra vissuti divergenti e come fare ad aggirarli o neutralizzarli. 

In particolare nel testo intitolato “Minima personalia” (A.Langer : «Minima personalia», in Belfagorrassegna di varia umanità, 1985, annata XLI), porta diversi esempi di come in famiglia fin da piccolo poteva rivolgere ai suoi genitori domande che considerava imbarazzanti su questioni che lo mettevano a disagio, e di come le loro risposte erano diverse da quelle che aveva originariamente in mente. E lo facevano riflettere.  La stragrande maggioranza degli altri abitanti di Vipiteno parlano tirolese, loro parlano il tedesco di Goethe e il piccolo Alexander sente che questo lo taglia fuori dal sentirsi come desidererebbe parte integrante della comunità. Le sue domande a una famiglia composta da padre medico chirurgo e madre farmacista, impegnata nel consiglio comunale, sono del tipo: “Perché non parliamo anche noi dialetto?”. “Perché papà non va mai in chiesa?”.  “Perché noi non odiamo gli italiani?”. Le risposte dei genitori lo spiazzano e sorprendono perché anziché basarsi su giudizi generali e astratti, lo invitano a collezionare storie ed eventi complessi apparentemente non  risolutivi sui quali riflettere. Storie che dimostrano che modi di pensare basati sul “chi ha ragione, chi ha torto” e comunque su “di chi è la colpa e di chi è il merito”, non solo non funzionano quasi mai, ma tendono a perpetuare il disagio e i conflitti. È vero che i fascisti avevano licenziato suo padre, per via delle leggi razziali, ma poi erano stati degli italiani che, dopo il 1943, gli avevano salvato la vita. E la madre aveva subito ostracismo in paese perché contraria all’opzione per la Germania di Hitler. “Né tutti i tedeschi, né tutti gli italiani sono buoni o cattivi, bisogna distinguere”. Allo stesso modo il padre di origine ebraica, è vero che non va in chiesa, ma la sua dedizione al lavoro, al suo impegno medico è  tale che perfino il parrocco locale è d’ accordo che “non conta tanto in che cosa si crede, ma come si vive“. 

È molto chiaro per Alex che le competenze necessarie per crescere e vivere nel XXI secolo – cognitive, socio-emozionali e fisiche – si formano in larga misura a partire dalla nascita e prima dell’entrata nella scuola, seguendo un processo cumulativo. Agli adulti, a partire dalle e dagli insegnanti per arrivare ai pedagogisti e agli amministratori privati e pubblici, viene di solito chiesto di discutere come educare i bambini, ma non di riflettere collettivamente su come loro stessi da bambini sono stati educati. Non a caso Alex stringerà una profonda amicizia con don Milani e tradurrà in tedesco la “Lettera a una professoressa”. Lo slogan delle femministe “il personale è politico” trova qui una applicazione a 360 gradi.  Premessa alla seconda domanda: avere ragione da soli o schierandoci con chi la pensa come noi non serve a nulla. C’è sempre più bisogno di “intelligenza collettiva” che nasce dal dialogo fra vissuti differenti, dalla capacità di vedere le cose da una molteplicità di punti di vista divergenti.  

Seconda domanda: quante persone conoscete, impegnate nel sociale e in politica, che si presentano alla riflessione pubblica come esponenti di gruppi interliguistici, interetnici, allergici al linguaggio dei salotti e alle logiche polarizzanti dei partiti? 

L’approccio sociale e politico di Alex Langer è intrinsicamente e radicalmente “laboratoriale”.  In un mondo complesso, sempre più interdipendente e diversificato, fare politica richiede contesti e atteggiamenti sperimentali, caratterizzati dalla raccolta sistematica degli episodi che nella convivenza interculturale mettono a disagio (gli “incidenti critici”), sui quali riflettere per farne i perni dell’ascolto attivo. Alex racconta come ancora da bambino, assieme a suo fratello, annotavano le situazioni in cui se chiedevi agli italiani qualcosa in tedesco non ottenevi risposta, diventavi trasparente, e viceversa se ai tedeschi ti rivolgevi in italiano.  Nei gruppi laboratoriali ognuno si impegna a riconoscere le abitudini difensive-offensive profondamente radicate nel proprio contesto culturale,  per poi rendersi conto che lo scambio leggero, sdrammatizzante delle proprie vulnerabilità è la premessa per la invenzione di soluzioni inedite di mutuo gradimento:”Quando qualcuno dissente da te, non cercare di spiegargli che ha torto, cerca di capire in che senso ha ragione“. Scrive: “Essere minoranza, senza per questo chiudersi in lamentele e nostalgie; coltivare le proprie peculiarità, senza per questo scegliere il ‘ghetto’ e finire nel razzismo; sperimentare le potenzialità di una convivenza pluri-culturale e pluri-etnica; partecipare a movimenti etno-nazionali, senza assolutizzare il dato etnico; lavorare per la comunicazione inter-comunitaria…”. E ancora: “Mi sento profondamente pacifista (facitore di pace: almeno negli intenti), e mi capita con una certa frequenza di partecipare ad iniziative ed incontri per la pace. Spesso ho l’impressione che si tratti di una pace astratta, e di un pacifismo privo di strumenti per raggiungere i suoi obiettivi. Al momento della guerra delle Falkland-Malvine penso: se questo fosse un conflitto italo-tedesco (austriaco, ecc.), saprei da che parte cominciare per contribuire ad una pace concreta.Il ‘gruppo misto’, il ponte, il ‘traditore’ della propria parte che però non diventa un transfuga, e che si mette insieme ai ‘traditori’ dell’altra parte…”. La logica dei blocchi non si supera predicando una pace astratta. Alex Langer non è mai andato dai suoi amici a Tuzla o Sarajevo, dove musulmani, cattolici e greco ortodossi, serbi, e bosnici, lottavano fianco a fianco contro l’aggressione delle truppe irregolari serbe, a spiegare che sbagliavano a difendersi anche con le armi, ma per capire assieme a loro quali altre strade contemporaneamente esplorare per far cessare la guerra e come poteva dare una mano per renderle efficaci. Era contro “un pacifismo privo degli strumenti per raggiungere gli obiettivi”. E infatti dalle esperienze nella ex Jugoslavia martoriata, ne è uscito con una idea positiva: la proposta di Corpi Civili di Pace Europei. Una idea nata dalla osservazione di solidarietà controcorrente, dalla forza e fierezza della popolazione di Tuzla quando un luogo di culto colpito da un missile, veniva rapidamente ricostruito grazie alla collaborazione di cittadini di tutte le etnie e religioni. Una idea nata dalla constatazione che queste buone pratiche erano più facilmente frutto di iniziative della società civile, di coraggiose e generose persone normali, piuttosto che opera di funzionari  irretiti nelle procedure delle istituzioni. I Corpi Civili di Pace Europei da lui proposti al parlamento europeo nel 1995, sono un organismo “terzo” formato in maggioranza da civili con esperienze di costruzione di comunità in zone in pericolo di escalation, che hanno la missione, i mezzi finanziari, l’autorevolezza legale e autonomia progettuale necessarie per aiutare le popolazioni locali a prendere le distanze dai blocchi contrapposti, denunciare e isolare le violenze e diventare protagoniste di un futuro desiderabile per tutti. Sono un organismo prezioso di prevenzione delle esclation belliche e di ricostruzione postbellica dei tessuti sociali dilaniati. Il Movimento Europeo di Azione Nonviolenta ha trovato la decisa e convinta adesione ad avanzare di nuovo questa proposta nel parlamento europeo da parte del popolo ucraino e siamo sicuri che sarebbe sottoscritta con convinzione anche dai popoli della Federazione Russa, se solo potessero esprimersi senza il pericolo di anni di galera o di essere “suicidati” in Siberia. 

Terza domanda: quante persone conoscete, impegnate nel sociale e in politica, che invece di discutere sulle vicende di guerra come se per risolverle bastasse che i capi di stato (o i popoli della terra) la pensassero come loro, hanno dedicato il proprio tempo e interesse a collezionare esempi di buone pratiche dalle quali trarre spunti e imparare?  Quanti la smettono di discutere su cosa non fare, per discutere su cosa fare? Non solo cosa devono fare gli altri, ma cosa possiamo e dobbiamo fare noi,  per esserci concretamente accanto alle vittime,  anima e corpo? 

Alex Langer era un costruttore di ponti e saltatore di muri e un violatore di confini, perché imparava in continuazione da qualcuno, spesso per lo più sconosciuto, che prima di lui si era inoltrato ad aprire nuove strade. Per finire questo contributo riporto una di queste esperienze, trascurate dai mezzi di comunicazione di massa e che riguarda il rapporto fra confini, guerre e dialogo interculturale. Un insegnamento che ci arriva dall’Africa e che come Mean abbiamo portato ad esempio in occasione della inaugurazione di un albero dedicato ad Alex al Giardino dei Giusti di Roma. Si tratta dell’intervento del 22 febbraio 2022 di Martin Kimani, ambasciatore del Kenia all’Onu sull’invasione russa della Ucraina:  «Il Kenia, come quasi ogni altra nazione africana è nato dalla fine degli imperi. I nostri confini non sono stati tracciati da noi, ma a Londra, Parigi, Lisbona, senza alcun riguardo per gli insediamenti delle antiche nazioni, i cui territori sono stati divisi e sventrati. Oggi al di là dei confini di ogni singolo stato d’Africa vivono persone con le quali condividiamo profondi legami storici, culturali, linguistici. Ma se al momento dell’indipendenza avessimo scelto di creare degli stati basati sulla omogeneità etnica e razziale, avremmo innescato decenni di guerre sanguinose. Invece abbiamo deciso di tenerci i confini che ci erano stati assegnati senza consultarci e di non interpretarli come barriere, ma come una sfida per perseguire una integrazione politica, economica e sociale a livelli più ampi e più alti. Al posto di formare nazioni con lo sguardo rivolto al passato, sulla base di una pericolosa nostalgia, abbiamo deciso di guardare al futuro, alla ricerca di una grandezza che nessuno dei nostri popoli ha mai ancora conosciuto e nessuna delle nazioni originarie sarebbe stata in grado di sognare. Abbiamo scelto di seguire le regole dell’Organizzazione per l’Unità Africana e lo Statuto delle Nazioni Unite, non perchè i nostri confini ci soddisfano, ma perché vogliamo qualcosa di più grande, forgiato nella pace. Crediamo che tutti gli stati nati dagli imperi che sono crollati o si sono ritirati, hanno al loro interno una molteplicità di popoli desiderosi di integrazione con i popoli circostanti. Questo è normale e comprensibile; in fin dei conti chi non vuole unirsi con i propri affini con i quali condividere e realizzare progetti e visioni comuni ? Ma al tempo stesso il Kenya ha rigettato questa scorciatoia alla convivenza, specialmente la dove comporterebbe il ricorso alla violenza e alla guerra. Dobbiamo agire nel senso di una più ampia inclusività, in modo tale da non incorrere in nuove forme di dominazione e di oppressione».

Non c’è dubbio che Alex si sarebbe riconosciuto in queste raccomandazioni e insegnamenti rivolti all’Europa e al mondo intero, da un paese africano, un continente nel quale la lotta contro il ricorso a guerre tribali sanguinose è attuale quanto oggi in Europa quella contro l’invasione dell’Ucraina. Sono idee queste che vivono dentro una prospettiva per davvero glocale, cioè radicate localmente ma con legami valoriali e di solidarietà che richiamano una impresa comune all’intera umanità. Possiamo riconoscervi una prospettiva “langeriana”. 

Credit foto Stefano Carofei/agenzia Sintesi

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