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Solidarietà & Volontariato

Non fotografare, facci caso

di Andrea Cardoni

Non ve la faccio vedere, ma provate a guardare questa immagine:  c’è la schiuma bianca del mare che arriva sul bagnasciuga. Sul resto del bagnasciuga c’è l’ombra dell’ultima onda a ricordare fin dove può arrivare l’acqua. Poi tre corpi a terra: scuri, pancia all’insù, gonfi di acqua, semivestiti, con i piedi  e le gambe aperte e le braccia spalancate, la bocca aperta. Uno dei tre corpi è più vicino all’acqua. Uno è in una pozza dove l’acqua del mare ristagna. Vicino c’è l’ombra di un uomo in piedi che cammina parallelo alle onde, con la maglia rossa con in mano un pacco bianco. Dall’altra parte dell’immagine, a destra, un poliziotto, in divisa, in piedi dove la sabbia è più scura, con le mani sui fianchi.

Ora vi chiedo: “ce la fate a guardare?”*. Ce la fate a fotografare? Questa è una delle tante fotografie scattate con smartphone che erano state pubblicate nelle fotogallery dei principali siti online di informazione dopo che tredici persone erano morte nel mare a Scicli. Sottotitolo: “la tragedia a pochi metri dal set di Montalbano”. Su ogni fotografia è possibile esprimere una emozione “social”: nel caso di questo naufragio l’84% degli utenti aveva detto di essere “triste” (il restante 16%?). Ci avevate fatto caso? Poi, dopo pochi giorni, le stesse immagini: a Lampedusa muoiono 366 persone. Stesse immagini. Addirittura con dirette tv di bare (vuote) trasportate con le gru. Cosa avremmo dovuto fare noi di fronte a queste immagini?

Il dibattito sull’etica della fotografia, su cosa fotografare, cosa pubblicare e cosa far vedere è ricorrente e sarà infinito perché ha a che fare con i tempi che ne determinano l’eticità e la convenienza. Smartphone e app permettono a tutti di raccontare storie attraverso le immagini: la sfida è portare sempre un po’ più in là la qualità della narrazione e, contemporaneamente, far si che quel racconto sia utile a chi fotografa e a chi quella fotografia deve guardarla, ma soprattutto ai protagonisti della storia raccontata. La fotografia, e più in generale il racconto, oltre alla restituzione della dignità a chi è in difficoltà, può far uscire dalla marginalità storie e problemi che marginali non dovrebbero essere. Basterebbe iniziare a fotografare e guardare verso cose alle quali generalmente non facciamo caso.

Uno stimolo e una opportunità per questo tipo di racconti viene da un concorso fotografico online che si chiama “Obiettivo aiuto” che scade il 15 febbraio e ideato da Emanuele Bellini, fondatore di Melpyou, in collaborazione con Shoot4Change.

Due categorie: instagram e immagini ad alta definizione. 

Tre possibilità di racconti. – un gesto di solidarietà che ti ha spinto a entrare nella tua associazione; – un bisogno d’aiuto che potrebbe avvicinare nuovi volontari; – una situazione che necessiti dell’intervento di persone generose.

«Bisogno e solidarietà, la dignità delle persone e la discrezione di chi fa volontariato: tutto questo è sempre molto silenzioso» dice Emanuele. «Trasmettere queste emozioni usando l’inventiva e la creatività delle persone, uscendo dai cliché della comunicazione sociale classica è molto più difficile, ma è una difficoltà positiva».

Emanuele che dice che il gesto con il quale avrebbe partecipato a “Obiettivo aiuto” è quello del suo viaggio in bicicletta, in Turchia, nel 2006 quando da una macchina, in pieno deserto, una persona gli riempie le mani di ciliegie (ha scritto “Mamma li turchi” ed.Polaris). «Quando sei in viaggio in bicicletta, senza navigatore, sei un extracomunitario, sei una persona bisognosa, non hai la forza della macchina: tutto questo ti obbliga a chiedere acqua e aiuto alle persone. Questa è la ricchezza di una fragilità bellissima».

Mancano pochi giorni alla fine del contest e sarà bello vedere i gesti invisibili esposti in una location d’eccezione, la Gabella, a Reggio Emilia. Gesti dei quali spesso facciamo fatica a farci caso. Così come le rappresentazioni mediatiche della tragedia: rompere le scatole (come suggerisce la copertina di questo mese di Vita) e iniziare a farci caso.

*Los Desastres de la Guerra è una serie di acqueforti che Goya incise tra il 1810 e il 1820 e raffigurano le atrocità perpetrate dai soldati di Napoleone in Spagna nel 1809. Ogni immagine è accompagnata da una didascalia: “Questo è male”, “Non si può guardare”, “Questo è troppo!”, “ce la fai a guardare?”.

 


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