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Terrorismo

Italian foreign fighters

di Redazione

Sono 5mila i combattenti in Siria e Iraq provenienti dall’Europa occidentale e nonostante lo zoccolo duro, con 3,700 persone al fronte, sia partito dai lidi francesi, inglesi, tedeschi e belgi, l’Italia contribuisce con 87 combattenti e segue il trend di crescita che interessa gran parte dell’Unione. L'intervista con Marco Arnaboldi, esperto di Islam politico, jihadismo e terrorismo home-grown

Questa volta è il Soufan Group, compagnia statunitense che si occupa di garantire servizi d’intelligence a governi e multi-nazionali, a mostrare l’inefficienza e lo scarso impatto degli interventi messi in atto da tanti governi europei, sia sul fronte bellico sia di prevenzione, per contenere il flusso di reclute straniere, o foreign fighters, verso lo Stato Islamico (SI) e altri gruppi islamisti, impegnati in Siria e Iraq. Se nel giugno 2014, cioè in corrispondenza con la proclamazione dello SI stesso, che ha sconvolto i parametri con cui analizzare la struttura di un’organizzazione tentacolare, lo stesso Gruppo identificava all’incirca 12,000 combattenti di 81 diverse nazionalità, nel dicembre 2015 il numero si è più che duplicato. Dal materiale raccolto da fonti governative ufficiali e dai report delle Nazioni Unite, istituti di ricerca e tanti accademici, il Gruppo ha, infatti, identificato tra le 27,000 e le 31,000 unità straniere in Siria e Iraq. Di questi individui, 5000 – il doppio rispetto ai 2,500 del giugno 2014 – provengono dall’Europa occidentale e nonostante lo zoccolo duro, con 3,700 persone al fronte, sia partito dai lidi francesi, inglesi, tedeschi e belgi, l’Italia contribuisce con 87 combattenti e segue il trend di crescita che interessa gran parte dell’Unione.

Per capire di più i processi di reclutamento e la situazione nostrana, VITA ha chiesto il parere di Marco Arnaboldi, esperto di Islam politico, jihadismo e terrorismo home-grown, e fra gli autori dei volumi Twitter e Jihad: la comunicazione dell’Isis e La Galassia Fondamentalista: tra jihad armato e partecipazione politica.

Ciao Marco, ti dispiacerebbe spiegarci come l’Italia rientri nel trend di crescita di partenze verso la Siria e l’Iraq, che sta investendo l’Europa Occidentale?
Sicuramente l’Italia fa parte di questa tendenza ma non è solo il numero di persone partite per il Siraq (neologismo con cui ci si riferisce a Siria e Iraq) a essere aumentato, e a essere comunque ancora relativamente basso rispetto agli altri stati, ma è soprattutto il meccanismo di radicalizzazione a essersi ampliato. Nel 2015 abbiamo visto un boom nel cosiddetto “jihadismo da tastiera” e le dialettiche proprie dello Stato Islamico sono arrivate anche da noi. Se fino al 2013 e 2014 nel nostro territorio avevamo ancora dei proto-jihadisti, che si rifacevano ad al-Qaeda e ai gruppi nord-africani radicatisi in Italia alla fine degli anni ’80 e inizi anni ’90, dal 2014 in poi questi hanno fatto propria la dialettica ISIS. Utilizzano riferimenti alla galassia dello Stato Islamico – parole come wilayah (o provincia), ad esempio – e hanno iniziato a mettersi nell’ottica di dover parlare del mondo utilizzando i termini cari all’ISIS. In generale siamo di fronte a un meccanismo di radicalizzazione interno, che si è omogeneizzato al resto d’Europa in direzione SI, e anche a un numero crescente di persone partite. Mi sento però di dover fare un distinguo. Tra quelli che sono partiti nel 2014, pur essendoci alcuni foreign fighters, molti ricoprivano funzioni extra-belliche e non erano attratti dal campo di battaglia, ed è emblematico l’elevato numero di donne e famiglie.

Che motivo hanno donne e famiglie per partire?
Se partivi per fare il jihad afghano, andavi al fronte per combattere una guerra sostanzialmente di trincea, dove c’erano dei nemici da sconfiggere, ma nel caso dell’ISIS, parti per risiedere in uno Stato. E’ una sorta di migrazione, che loro chiamano con il termine sacro di hijra, per l’appunto. E’ uno spostamento di famiglie che lasciano uno stato per un altro, anche senza che qualcuno tra i componenti abbracci le armi – anche se la spinta bellica iniziale c’è sempre – perché lo Stato Islamico non richiede solo foreign fighters ma anche ingegneri, architetti, professori. E certamente c’è bisogno di coloni, altrimenti che stato sarebbe?

Si parlava prima di dialettica ISIS. Quanto forte è il potere del sistema centrale sulle future reclute?
È forte il messaggio comunicativo, nel senso che ogni cosa che accade – prendendo in esame anche gli strumenti più duri come attentati, battaglie o scontri di trincea – va analizzata secondo una forte connotazione propagandistica di soft recruiting, cioè di reclutamento basato sulla comunicazione indiretta. Sotto questo punto di vista l’influsso del Siraq è fortissimo mentre, invece, è più collegato a dinamiche classiche tutto quello che riguarda le wilayah periferiche, come la Libia, dove si ha un disegno di Califfato futuro che un giorno dovrà riunirsi con tutte le province sparse in giro per il mondo. Dal punto di vista propagandistico il sistema centrale ha una presa fortissima sulle future reclute dell’ISIS, anche e proprio in virtù della rivoluzione di un linguaggio nuovo ad al-Qaeda.

Quali sono i termini che suscitano più attrattiva nella nuova dialettica?
Sebbene anche i politici e i centri di ricerca si focalizzino sulla parola “islamico”, il punto focale è la parola “stato”, da cui nasce una serie enorme di considerazioni di politica estera. Che senso ha agire sulla parola “islamico” chiedendo ai centri islamici di condannare lo SI? Perché dire che lo SI non è islamico? La parola “islamico” è stata adottata dai gruppi jihadisti almeno dagli anni ’50, ma a noi interessa lo “stato”. Passare da un gruppo jihadista che stava sulle montagne, come al-Qaeda, a un gruppo che offre servizi, wi-fi, acqua, gas è molto diverso. Dawla (o stato) è una parola contestatissima, tra l’altro, perché nel momento in cui al-Qaeda in Iraq è passato ad essere al-Dawla al-Islamiya un sacco di persone pro-Stato Islamico hanno dibattuto la decisione di adottare un termine laico. La statualità del gruppo è l’attrattiva principale, cui si aggiunge in un secondo momento il linguaggio propagandistico. In questo senso pensiamo alla rivista Dabiq, fondata da un piccolo genio della comunicazione tedesco, Abu Talha al-Almani, morto recentemente, che da cantante rap in Germania, ha portato tutto il suo sapere contestuale di propaganda all’interno dello SI.

Che peso ha il credo religioso dietro alla scelta di partire?
Non conosco nessuno che sia partito unicamente per motivi religiosi. C’è sempre una miccia extra-religiosa, mentre la religione è il veicolo tramite cui si attiva il processo di radicalizzazione. In generale, quando si parla di radicalizzazione, la si considera come il punto d’intersezione tra due rette, dove una è la matrice sociologica e l’altra quella psicologica. All’interno di una delle due può trovarsi la componente religiosa.

Chi sono gli italiani in Siraq oggi?
Di italiani che effettivamente combattono in Siria e Iraq ce ne sono pochissimi, saranno 20-25 in tutto, mentre tutto il resto degli 80 noti assolve funzioni non belliche. Tra questi il 25% è socialmente, e a livello di passaporto, completamente italiano, e il restante 70-75% ha discendenza nord-africana o levantina.

Che differenza c’è nella propaganda dell’ISIS per i paesi occidentali e arabo-islamici?
Per come lo vedo io lo Stato Islamico è una bestia a due facce. Ha una componente occidentale, che si poggia su dinamiche bottom-up (dal basso verso l’alto) di reclutamento, che è ancora ispirata al vecchio qaedismo e prescrive che, a prescindere dalla capacità di fare Dawla all’interno dell’Occidente, tu possa ancora ricorrere agli attentati (ad esempio), e poi c’è la zona attinente al mondo arabo-islamico, più cruenta e propriamente politica, che fornisce il motivo per cui un tunisino, ad esempio, debba abbattere il suo regime e liberarsi del governo attuale. Nei paesi occidentali c’è un approccio human-centred, mentre per quelli arabo-islamici political-centred. In quanto bestia a due facce, poi, bisogna vedere come lo SI vada combattuto differentemente nei due diversi mondi, per cui, se gli arabi si appoggiano a mezzi coercitivi e sono bravissimi a collezionare intelligence locale, noi abbiamo un peso comunicativo nella lotta e, se siamo necessariamente meno bravi a capire dove si nascondono e cosa fanno gli jihadisti, possiamo trovare più facilmente una risposta onnicomprensiva e capire perché attirano tanto. Dobbiamo essere bravi a creare contro-narrative e dare una risposta politica servendoci dell’aiuto degli stati arabo-islamici per, infine, proporre un modello di Islam che funzioni anche al di fuori degli stati islamici.

Che piste può prendere un aspirante foreign fighter italiano che voglia combattere in Siria?
Oggi quando parliamo di emigrazione dall’Europa per scopi violenti identifichiamo quattro piste. Se si ha bisogno di un aggancio, si possono prendere tre strade: quella di matrice nord-africana (si rifà alla galassia radicatisi alla fine degli anni ’80 e inizi ’90); quella balcanica (si rifà al milieu che si è andato a formare con il jihad bosniaco nel ’95) e quella nord-europea (più moderna, gravita attorno a una coalizione di network informali – come Sharia4 – con individui in grado di creare comunicazione tra nord Europa e ISIS o altri gruppi jihadisti). Ma, visto che ormai è facile viaggiare verso lo Stato Islamico, un individuo si può anche radicalizzare e partire senza aggancio. Per quel che riguarda l’Italia ci sono solo due piste disponibili. La prima è quella nord-africana, presente nel sud Italia dove ci sono network come Tablighi Jama’at (attivo per esempio ad Ancona) e Tablighi ed-Da’wa in Sardegna, che si sono radicate negli anni ‘80 e ‘90m e poi formalizzate. Non sono violenti ma possono prendere informazioni ed, eventualmente, facilitare i movimenti con le case madre. La seconda è quella balcanica in nord Italia, soprattutto Veneto e Lombardia, dove si è intessuta una rete di relazioni con i gruppi balcanici dal ‘95 in poi a partire dal jihad bosniaco. Ad esempio, un collaboratore dell’ex imam della moschea di viale Jenner di Milano, Shaban, era il comandante di al-Mujahid, cioè del più forte gruppo jihadista in Bosnia.

Come si svolge il reclutamento in Italia rispetto al resto d’Europa?
Il trend generale vuole che la moschea sia sempre meno forte rispetto a internet e, sebbene per l’Italia sia lo stesso, da noi la tendenza risulta più sfumata. E’ difficile che un individuo compia il percorso di radicalizzazione in moschea ed è più probabile, invece, che avvenga in circoli (cioè collettivi particolarmente solidi di 4/5 persone con alta densità di comunicazioni) o su internet autonomamente, ma è possibile che cerchi di coinvolgere altre persone.

Come cerca l’ISIS di sfruttare i flussi migratori verso l’Europa e l’Italia in particolare?
Sappiamo che lo Stato Islamico sfrutta i canali migratori non per portare persone dal Nord Africa e Siria all’Europa ma, come nel caso del Bardo in Tunisia, dove un povero ragazzo marocchino è stato detenuto per sei mesi in Italia e poi rilasciato senza capo d’imputazione, ruba l’identità a qualcuno. Il giovane in questione è partito per l’Italia lasciando indietro la sua sim telefonica, che è stata presa dall’ISIS e data all’attentatore. Ogni volta che qualcuno parte abbandona una “casella identitaria”, come una sim o la carta d’identità, e lo Stato Islamico ne approfitta, sfruttando la nostra paura e vampirizzando cittadini, che risultano mancanti.

Cosa rende l’Italia peculiare rispetto agli altri paesi dell’Europa occidentale? Cosa simile?
La peculiarità è la scarsezza dei numeri e anche i meccanismi di radicalizzazione sono più simili a quelli di stampo qaedista, dove il ruolo della moschea risulta comunque rilevante. Inoltre, in Italia c’è una migliore intelligence, dati i bassi numeri di elementi da sorvegliare. Ma la peculiarità per eccellenza è quella delle mafie. I foreign fighters tornano, ma non tornano le armi, e per passare all’azione devono comprarle, affidandosi a un mercato controllato spesso dalle mafie. Stessa cosa nel caso un gruppo islamista potenzialmente violento voglia agire: ha bisogno non solo di armi, ma anche di soldi e deve perciò affidarsi al mercato della droga o a scambi di persone, zone sono gelosamente coperte dalle mafie. Questa è una mossa di counter-terrorism inattesa: la mafia, paradossalmente, è un piccolo anticorpo che fa da scudo al jihadismo. Non a caso un documento non ufficiale diramato da alcuni fan dello SI in Nord Africa diceva che per entrare a Roma bisognava trovare un modo per collaborare con le mafie, che altrimenti sarebbero state di intoppo per subentrare nel mercato delle armi e soldi. La somiglianza risale, invece, nella narrativizzazione dello SI nata negli altri paesi prima, e in Italia poi con alcuni siti e Sharia4, che ha avuto anche una sua piccola succursale italiana.

C’è una Molenbeek – quartiere belga fortemente radicalizzato – nostrana?
Non c’è un quartiere così piccolo con una densità così alta ma, se per le dinamiche classiche non c’è una zona più forte dell’altra, per il nuovo tipo di radicalizzazione si vede del fermento nel triangolino tra Veneto e Lombardia.

Cosa sta facendo lo stato italiano per prevenire la radicalizzazione?
Rispetto ad altri paesi siamo abbastanza indietro nei programmi di de-radicalizzazione (che de-radicalizzano un individuo già radicalizzato, come un foreign fighter, cercando di re-integrarlo con un processo socio-psicologico) e contro-radicalizzazione (vanno forte in Danimarca, Inghilterra e Svezia e cercano di prevenire il problema, impedendo che la gente si radicalizzi grazie a gruppi di dialogo o alle spinte di imam che condannano lo Stato Islamico e il terrorismo), perché l’intelligence funziona molto bene e questi programmi costano molto. Visto che i casi sono ancora pochi, conviene continuare con l’approccio hard, di intelligence, piuttosto che iniziare un approccio in divenire, come quello di contro radicalizzazione. L’intelligence funziona meglio in Italia, mentre in altri paesi è ontologicamente inadatta a curare il fenomeno: se per controllare una persona 24 ore su 24 hai bisogno di 25 persone, si pensi alla Francia e ai suoi 600 sospettati… avrebbero bisogno di un intero esercito.

Eleonora Vio è una giornalista rreelance e co-fondatrice di Nawart Press


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