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La zona oscura: pedofilia e violenza sui minori

di Marco Dotti

Chi è il pedofilo? Perché lo è diventato? Perché il suo interesse verso i minori si traduce spesso - ma non necessariamente - in una violenza sessuale? Perché l'abuso sessuale su minori è diffuso soprattutto all'interno di comunità laiche e religiose? Capire è necessario per agire. Ne parliamo con Luciano Di Gregorio, psicoterapeuta, autore del recente "La voglia oscura. Pedofilia e abuso sessuale", edito da Giunti.

Allenatori, capi scout, presentatori televisivi, uomini di Chiesa. Ci sono anche loro nell'operazione anti pedofilia che sta scuotendo il Paese. Partita giovedì scorso dalla Procura di Brescia, coordinata dal sostituto procuratore Ambrogio Cassiani l'inchiesta bresciana rivela per ora solo la punta di un iceberg. A metà gennaio, l'arresto di un uomo sieropositivo, accusato di rapporti sessuali con un numero imprecisato di minori, aveva scosso l'opinione pubblica. Ancor di più dopo che l'uomo si era rivelato affetto da Hiv e consumava rapporti con i minorenni senza alcuna protezione. "Per vendetta", affermano gli inquirenti. Tanto è bastato per alzare il livello di guardia. Alzato il livello di guardia si è cominciato a squarciare il velo di un network off e online dove sfruttamento e abuso vanno di pari passo. Ma non basta. Il fenomeno-pedofilia, soprattutto quando non sfocia in atti di violenza conclamata e esplicita, è molto più profondo e richiede una particolare attenzione. Abbiamo per questo incontrato su questo tema il professor Luciano Di Gregorio, psicologo e gruppoanalista, autore di un libro che può aiutarci a capire: La voglia oscura. Pedofilia e abuso sessuale, edito da Giunti.

In territori oscuri

La pedofilia è una “zona di confine” dove i comportamenti di abuso sono mischiati, confusi, spesso intrecciati ad altri, magari di cura, accudimento, amore. Il fenomeno è dunque complesso. La pedofilia non coincide dunque, in sé, già con un comportamento violento?
La pedofilia non coincide, sempre e comunque, con l’abuso sessuale. Il pedofilo è una persona adulta che si sente attratta da bambini ma non necessariamente diventa un child offender o un sexual offender, ossia una persona che nel rapporto con il bambino passa a degli agiti di tipo sessuale più o meno violenti perseguibili penalmente. Confondere le varie tipologie indica già una tendenza a omologare la figura del pedofilo all’abusatore di bambini. Dipende tutto dal comportamento nella relazione con il bambino. Quando si costruisce una lettura e un’interpretazione della personalità del pedofilo bisogna cercare di distinguere tra chi si limita a desiderarlo e che diventa un predatore delle sue giovani vittime. Anche se è vero che negli ultimi anni la pedofilia si associa sempre più a pratiche comportamentali violente sui minori. Ma nell’analisi della personalità bisogna a mio avviso fare una distinzione.

Nel suo libro lei insiste molto sul tema della “sessualizzazione obbligata della relazione”: che cosa significa?
Nel pedofilo, indipendentemente dal fatto che diventi o no un abusatore di bambini, è già presente un modo di concepire il rapporto con l’altro sessualizzato, non è solo una relazione di ordine umano e un rapporto affettivo ma tutto è fin dall’inizio inscritto in un’idea obbligata di rapporto che implica una forma di sessualità. Questa obbligatorietà di concepire l’altro come un oggetto sessuale e di sessualizzare la relazione nasce nella personalità del pedofilo come un bisogno di riempire un vuoto con un pieno sessuale. Il senso di vuoto deriva dall’incapacità di vivere delle relazioni umane e affettive significative.

Un trauma sessuale precoce sarebbe alla base della personalità pedofila?
Dagli studi sulla personalità dei pedofili e dai casi seguiti in terapia escono elementi diversi. Nella storia pregressa, spesso non si riscontra che un bambino abusato sessualmente diventi necessariamente e inevitabilmente un pedofilo adulto. È un elemento che talvolta si riscontra, ma talaltra no. Quindi se ne deduce che non è un elemento determinante l’aver subito una violenza o una esperienza traumatica precoce nella propria storia pregressa. A volte, quando c’è, questo trauma è più un trauma cumulativo: è un’esperienza deludente di tipo affittivo che si prolunga nel tempo con le figure di riferimento della propria infanzia. Nell’ambiente famigliare il bambino fa esperienze di trascuratezza, di dominio o di influenzamento da parte del genitore. Ci sono altri aspetti che si possono inserire in un “contenitore” che possiamo chiamare trauma cumulativo infantile e che contiene altre possibilità. Questo concorre a impoverire la personalità del pedofilo, che non ha uno sviluppo sessuale armonico e, davanti a esperienze di trascuratezza, magari ricorre precocemente a fantasie di tipo sessuale, fantasie di tipo perverso e con contenuti aggressivi, il rifugiarsi in fantasie sessuali serve al bambino che diventerà pedofilo per colmare momenti di isolamento, vissuti di solitudine o di abbandono che ha sperimentato nella sua infanzia. Qui può magari trovarsi l’origine prima delle fantasie sessualizzate, di tipo perverso, che il bambino che diventerà adulto pedofilo ha costruito per proteggersi dal trauma cumulativo o per compensare delle esperienze dannose vissute nelle relazioni affettive primarie.

Minori adescatori?

L’altro viene percepito come mero oggetto, dunque. Le cronache, però, sembrano restituire l’immagine di minori sempre più attivi nelle pratiche di adescamento, prostituzione e persino ricatto.
I bambini che si fanno intenzionalmente adescare sulla rete per finalità e vantaggi economici, dove l’adulto oltre che adescato può magari risultare anche sfruttato economicamente, esistono ma a mio avviso la percentuale non è così rilevante da farne un caso sociale, non è “il problema”. Anche gli ultimi dati della Polizia Postale, fotografano una situazione in cui sono per lo più gli adulti ad andare alla ricerca di bambini per reperire materiale pornografico che poi sfruttano commercialmente, mettendolo in vendita in rete. C’è poi una fetta di questi che, oltre a raccogliere materiale per poi rivenderlo, cercano attivamente un contatto fisico, dopo il contatto in Rete c’è un passaggio all’incontro reale. Dai dati raccolti in ambito sociale e nelle storie ricostruite nei colloqui clinici emergono altre situazioni. Ad esempio, l’idea che il bambino sia disponibile all’incontro sessuale è un’idea che si costruisce, in maniera distorta, nella mente del pedofilo che immagina che il desiderio sessuale sia già nella mente del bambino e che il bambino voglia, in qualche modo, essere “guidato”, “educato” alla conoscenza della propria sessualità. Ma questa è un’attribuzione arbitraria che deriva da un meccanismo di identificazione proiettiva, per cui il pedofilo mette nell’altro una rappresentazione interiore pre-concepita nella sua mente.

Ma è falsa…
È falsa, è un mettere una parte di sé infantile in un certo bambino che viene immaginato come compiacente, bisognoso di affetto, o come colui che può avere desiderio di essere condotto alla scoperta della sessualità. È la distorsione tipica del pedofilo che, in realtà, proprio perché usa anche questa rappresentazione finisce per trattare il bambino come un oggetto d’uso, perché non tiene conto della sua fragilità effettiva, non considera la sua condizione psicologica che è quella di un soggetto fragile in fase evolutiva che può subire l’influenzamento forte dell’adulto sulla personalità e, inoltre, non tiene conto del bisogno di ordine affettivo che il bambino mostra nei confronti dell’adulto. Il bambino di solito si avvicina e si interessa perché ha bisogno di affetto, perché ha bisogno di qualcuno che si occupi di lui. È lecito pensare che i pedofili possano ottenere i migliori risultati – dal loro punto di vista, ovviamente – proprio pescando in quelle realtà sociali dove si trovano bambini che sono un po’ trascurati, difficili, con problemi affettivi e d’integrazione sociale e che cercano in un adulto quelle possibilità affettive che non hanno trovato nella propria famiglia. Ma il pedofilo non usa questo bisogno legittimo per favorire una crescita affettiva del bambino. Lo usa per sfruttarlo, come un oggetto d’uso.

Qui si apre il capitolo, delicatissimo, delle istituzioni educative, forse quelle in cui pratiche di abuso e pratiche di cura, formazione, educazione si trovano più a contatto. Esistono numeri sul fenomeno? Oggi, tra l'altro, esce nelle sale cinematografiche Il caso Spotlight, che racconta l'inchiesta sulla pedofilia che nel 2003 valse il Premio Pulitzer ai giornalisti del Boston Globe.
Purtroppo in Italia non ci sono ricerche che quantifichino il fenomeno all’interno delle istituzioni educative laiche, religiose o comunitarie di recupero. Studi di questo tipo sono stati fatti sulle istituzioni religione negli Stati Uniti, dopo gli scandali famosi da cui è nata l’inchiesta del Boston Globe. Lì si calcolò che il 10% dei preti cattolici delle chiese americane, irlandesi, tedesche, canadesi è da catalogare tra i molestatori.

La violenza istituzionalizzata

Perché una percentuale così alta proprio in queste istituzioni?
Perché in queste istituzioni si creano dei rapporti asimmetrici di dipendenza forte del bambino nei confronti dell’adulto. Il potere è qualificabile spesso come un dominio dell’adulto sul bambino e può arrivare alla vera e propria sottomissione. L’organizzazione dell’istituzione è tale che, implicitamente, porta all’ubbidienza ai principi che regolano la vita comunitaria e al silenzio acritico e tende a favorire l’idea che chi ha potere possa esercitarlo in maniera totalizzante e assoluta. Il potere finisce per essere esercitato dai leader sugli adepti e dagli adepti sui bambini, seguendo una sorta di scala gerarchica, e là dove l’esercizio del potere si incanala per una strada di uso crudele dell’altro, i bambini sono trattati anche in termini sessuali. Abbiamo casi di questo tipo in varie istituzioni religiose, non solo nella Chiesa cattolica. L’istituzione stessa autoproduce questa modalità di relazione che prolifera in assenza di un limite.

Non avere più il senso del limite è la conseguenza di un isolamento di queste istituzioni rispetto al mondo esterno, che si chiudono e immaginano che tutto il bene sia dentro e tutto il male sia fuori. Una volta stabilito che tutto il bene è dentro, allora legittimo ogni cosa e ogni cosa va nella direzione del perseguimento di quell’ideale istituzionale che pretende la sottomissione cieca alle regole istituzionali e mi impedisce di avere un pensiero altro.

Oltre al senso del limite, nelle istituzioni totalizzanti si perde anche il senso della realtà. Il mio senso di realtà si misura in funzione dell’ideale sociale comune che mi legittima qualunque comportamento, poiché tutto ciò che fa l’istituzione è a fin di bene, un valore positivo che ho attribuito arbitrariamente all’istituzione in quanto tale e che, quindi, passa anche al leader che incarna l’istituzione e alle altre figure che fanno parte, a livelli magari apicali, di una certa comunità. Tutte le operazione che compio le compio pensando di fare il “bene istituzionale”. Non vedo più una realtà differente, non colgo più il senso della violenza se l’istituzione la legittima. La violenza viene così alla fine istituzionalizzata.

Una domanda professionale: quanto pesa avere in cura soggetti pedofili?
Il problema – quando si lavora con personalità pedofile e, in particolare, con pedofili che sono anche molestatori di bambini e sono stati condannati per reati di questo tipo – è superare il disgusto. Disgusto che queste persone trasmettono e che fanno di tutto per alimentare, perché spesso si propongono come persone sane, come coloro che non sono stati capiti nelle loro vere intenzioni.

Anche dopo una condanna pensano di avere fatto il bene?
Sì, pensano che in fondo hanno fatto il bene del bambino, non c’era niente di tanto grave o così deprecabile nel loro comportamento. Questo ovviamente crea delle difficoltà a coloro che devono lavorare e devono cercare di capire il senso della personalità perversa. Dobbiamo però, in quanto terapeuti, superare questa immagine e questa difficoltà che si prova nell’immediatezza dell’incontro col pedofilo e vedere in loro quel soggetto sofferente che ha avuto una storia famigliare sfortunata, una costellazione famigliare che ha portato a far sì che si costruisse una personalità di tipo perverso e si orientasse sessualmente verso i bambini.

Se si riesce a cogliere dietro al pedofilo anche il soggetto sofferente, malato, allora c’è la possibilità di pensare a un lavoro su una personalità problematica come le altre che si trattano nella psicoterapia. Quello che noi vediamo è, per così dire, il prodotto finale. Noi vediamo l’adulto già strutturato come pedofilo predatore di bambini. Tutto ciò che c’era prima, e che poteva riguardare la sofferenza di un’infanzia infelice, non si vede più.

Il proprio passato viene misconosciuto in primo luogo dal pedofilo stesso che di solito rimuove tutto il passato infantile e il bambino sofferente che è dentro di lui, che viene inevitabilmente negato e proiettato proprio nella sua vittima di turno…

Dinanzi al pedofilo, però, ci comportiamo come dinanzi a un soggetto che sembra avulso, non immerso e, di conseguenza, non in parte prodotto – mi scuso per i termini brutalmente marxisti – anche della società che lo esclude. Il problema, anche in questo caso, è più profondo e riguarda l’elusione del problema. Affrontarlo alla radice potrebbe voler dire affrontare alla radice alcuni nodi sociali non da poco….
Nella nostra società dove c’è una sessualità che tende a diventare sempre più di ordine perverso, in termini generali, al di là della pedofilia, una società che tollera sempre più l’idea di rivolgersi a oggetti sessuali per trarne soddisfazione senza curarsi delle loro caratteristiche di fragilità e precocità sessuale, sono proprio i bambini a farne maggiormente le spese. In una società di questo tipo, dove alcuni elementi della pedofilia sono entrati nella fisionomia generale, noi colpiamo i pedofili rinunciando a capire a fondo il problema, perché temiamo che dietro i tratti del pedofilo ci siano – in parte – anche i nostri tratti di distorsione del desiderio. Senza riuscire a comprendere veramente.

L'ospite

Luciano Di Gregorio, psicologo e gruppoanalista, svolge attività di psicoterapeuta. Socio ordinario della Società Gruppoanalitica Italiana (SGAI), è autore di numerosi articoli apparsi su riviste specializzate. È membro dell’Associazione Italiana Formatori (sezione Toscana). Tra i suoi lavori: Psicopatologia del cellulare. Dipendenza e possesso del telefonino (FrancoAngeli 2003), La fatica di essere autentici. Nostalgia di appartenenza, desiderio di individualità (FrancoAngeli 2006), Le connessioni pericolose. Sesso e amori virtuali (Unicopli 2012), L’ho uccisa io. Psicologia della violenza maschile e analisi del femminicidio (Primamedia Editore 2014).

Immagine in copertina: Getty Images


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