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Dialoghi

Jihadismo globale: strategie del terrore fra Oriente e Occidente

di Marco Dotti

Nel 2011 per la galassia jihadista si apre un vuoto: orfana del suo principale esponente, Osama bin Laden, si ritrova incapace di restare un produttore efficace di senso che sappia ancora rispondere alle esigenze delle nuove generazioni. In questo vuoto prende avvio un processo ideologico che il sedicente Stato islamico oggi sembra riempire. Ne parliamo col professor Andrea Plebani, dell'Università Cattolica, autore del recente "Jihadismo globale"

Il 2011 è l'anno delle "Primavere arabe", ma è anche l'anno in cui ha inizio l'inverno siriano. Le conseguenze della crisi in Siria non si sono limitate a influire in modo decisivo sugli equilibri dell’intera galassia jihadista e su quel fenomeno che Andrea Plebani, professore all'Università Cattolica del Sacro Cuore, invita a leggere nella chiave del jihadismo globale, titolo del suo lavoro recentemente pubblicato da Giunti.

Il 2011 è l'anno delle Primavere arabe. È anche l'anno della morte di Osama Bin Laden e, non da ultimo, dell'inizio della crisi siriana. Che cosa è accaduto, dal 2011, nella "galassia jihadista"?
Parafrasando uno dei numeri più famosi della rivista online Inspire, si potrebbe parlare di un vero e proprio tsunami. Un cambiamento che ha dato vita a un completo sovvertimento di gerarchie che parevano immutabili e che, sin dai tragici eventi del 9/11, avevano in al-Qa'ida il principale punto di riferimento della galassia jihadista. In realtà si è trattato di un processo evolutivo ben più lungo che, almeno nel caso del sedicente Stato Islamico, affonda le sue radici nel conflitto iracheno del 2003. In questo senso gli eventi del 2010-2011 hanno rappresentato un passaggio importante di un percorso più ampio e articolato che è culminato con l'ascesa di IS nel 2014. Cruciali, in tal senso, si sono rivelate tanto le politiche settarie dell'amministrazione irachena di Nuri al-Maliki, quanto lo scoppio della crisi siriana e il marcato disengagment statunitense. Fattori che Abu Bakr al-Baghdadi ha sfruttato sapientemente per far rinascere un movimento che solo pochi mesi prima era considerato prossimo al collasso.

Quali sono le differenze principali fra il modellp di Al Qa'ida e il disegno di Al-Baghdadi?
Le differenze sono molteplici, sia a livello strategico che operativo. al-Qa'ida punta alla restaurazione del califfato ma in un orizzonte temporale lungo. Per IS bisogna operare per la rinascita del califfato "qui e ora" e la proclamazione dello "Stato Islamico" rappresenta una parte cruciale di questo percorso. Differenze significative si registrano anche in relazione alle dinamiche intessute con i diversi movimenti di opposizione siriana. Per la filiale "siriana" di al-Qa'ida (Jabhat al-Nusra) essi sono potenziali alleati coi quali coordinarsi in modo da sconfiggere il regime siriano e da porre le basi per una rinascita dello stato su basi "realmente" islamiche. Per al-Baghdadi essi hanno solo due opzioni: dichiarare la loro fedeltà al gruppo o essere considerati alla stregua di nemici. IS, se possibile, ha inoltre denotato una maggiore brutalità rispetto al movimento fondato da bin Laden e ha elevato ancora di più la campagna mediatica a vero e proprio campo di battaglia, assimilabile per importanza ai teatri di guerra.

Nel suo libro scrive che sarebbe un errore considerare il jihad armato come una mera conseguenza dell'attuale congiuntura storica. Possiamo fare il punto su questo termine-concetto?
Il concetto di jihad ha da sempre rappresentato uno degli aspetti più complessi della dottrina islamica. Esso è traducibile con il termine "sforzo/tensione" e include tra le sue molteplici accezioni tanto la dimensione dello scontro violento quanto quella della predicazione e dello sforzo per il miglioramento del singolo credente. Nel volume mi limito a sottolineare come questa pluralità di significati coesistano all'interno di uno stesso concetto e a evidenziare come l'equazione "jihad-guerra santa" sia fuorviante e finisca col favorire proprio quei nemici che intendiamo combattere.

Nella logica amico-nemico, il jihadismo globale sembra aver cancellato ogni zona intermedia. Il "vero musulmano" sarebbe chiamato – stando a questa lettura – alla lotta armata. Anche all'interno della comunità. Chi non prende le armi è dunque un nemico?
Dal punto di vista dello "Stato Islamico" si, anche se sono previste forme diverse, e meno impegnative, di sostegno. Il punto, però, non è tanto imbracciare le armi per conto di IS, ma aderire al suo messaggio e operare per il suo successo. La tesi di fondo è che esso rappresenti l'unica forma di autorità legittima all'interno del mondo islamico (e che quindi ogni fedele sia chiamato a riconoscerne la supremazia) ma anche l'unica speranza per l'intera umma che, secondo i militanti jihadisti, ha smarrito la propria via e vive in uno stato di decadenza. Uno stato che, nell'ottica del gruppo di al-Baghdadi, solo IS è in grado di modificare

Le conseguenze della crisi esplosa in Siria non si sono limitate al solo piano operativo, ma hanno influito in misura determinante sugli equilibri dell’intera galassia jihadista. Per la prima volta dal 2001 la leadership di al-Qa‘ida veniva messa in aperta discussione da un comandante locale (anche se al-Baghdadi non si considerava tale) e accusata di aver deviato dal sentiero tracciato dal suo fondatore anteponendo «le ragioni dell’uomo a quelle di Dio».La nascita del Da‘ish ha avuto un impatto profondo sulla regione. In Siria essa è coincisa con un forte irrigidimento delle posizioni del movimento tanto nei confronti della popolazione sotto il suo controllo quanto nei riguardi degli altri gruppi ribelli.

Andrea Plebani, Jihadismo globale, Giunti 2016, p. 85

Oggi quali sono i punti di forza del messaggio jihadista? Perché riesce a accreditarsi come "produttore di senso" soprattutto presso i giovani?

Il messagio di IS, sopratutto, è diretto, essenziale e in grado di far breccia nell'attenzione del proprio audience di riferimento. In un periodo di profondi cambiamenti e di forte spaesamento, esso offre una via chiara e la promessa di combattere, e morire, per qualcosa di più grande. Paradossalmente, si potrebbe dire che esso è in grado di dare una speranza a chi a lungo si è sentito impotente o inadatto.

Facendo leva sulle presunte similitudini tra il cammino della primigenia comunità islamica e quello del gruppo di al-Baghdadi esso spinge i singoli a ripeterne le gesta. Al di là di queste posizioni, vi sono anche importantissime capacità comunitive che si sono dimostrate particolarmente adatte a catturare l'attenzione e l'interesse di giovani e giovanissimi provenienti da ambiti ed esperienze anche molto differenti. Detto ciò,

parliamo comunque di un messaggio che è stato sposato da poche migliaia di individui che non devono essere considerati in nessun modo come espressione dell'intera comunità islamica.

All'indomani della tragedia di Bruxelles si parla molto di "guerra all'Europa", eppure lo "jihadismo globale" trova le proprie origini e il proprio terreno di coltura all'interno di dar al-Islam e del "grande Medio Oriente". E lì in prevalenza colpisce. Ci aiuta a capire?


Come dimostra anche solo un'analisi meramente numerica, la grandissima parte degli attentati condotti dalle forze jihadiste non è rivolta all'Occidente ma alla regione mediorientale. Un'area che, a partire dai primi anni duemila, è stata interessata da una serie di crisi che hanno rotto equilibri consolidati ed evidenziato il fallimento di modelli di sviluppo e di interazione politica che parevano inossidabili. Questi fattori, accompagnati da una politica occidentale miope ed ondivaga e dagli interessi confliggenti delle diverse potenze regionali, hanno favorito l'apertura di spazi di manovra che le varie anime della galassia jihadista sono riuscite ad occupare presentandosi come gli unici attori disposti e in grado di cambiare le cose.

La loro reinvenzione della tradizione e la loro forte attenzione agli aspetti comunicativi è risultata determinante per ottenere il sostegno di una parte della comunità islamica. Una parte che, però, costituisce una frazione infinitesimale di una comunità di oltre un miliardo di persone che ha condannato con forza e a più riprese le azioni di militanti considerati alla stregua di assassini che con l'islam poco o nulla hanno a che fare.

Immagine in copertina di Spencer Platt/Getty Images

Il libro

Jihadismo globale. Strategie del terrore fra Oriente e Occidente, Giunti editore, Firenze 2016, pagine 144, euro 16. Com’è sorto lo “Stato islamico” nell’Iraq e nella Siria devastati dalla guerra civile e perché il jihad armato è diventato un attore chiave del panorama internazionale? Qual è la forza di un messaggio che attrae migliaia di foreign fighters? Perché il radicalismo islamista compie atti di inaudita efferatezza?Queste sono alcune delle domande cui il volume intende dare risposta, analizzando profili e strategie delle sigle che hanno scatenato una spirale di violenza capace di infiammare intere regioni del dar al-islam.

L'autore

Andrea Plebani insegna all’Università Cattolica del Sacro Cuore e collabora con l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale e la Fondazione Oasis. Ha curato con Martino Diez La galassia fondamentalista tra jihad armato e partecipazione politica (Marsilio Editori 2015) e con Omar Al-Ubaydli il volume GCC relations with post-war Iraq: a strategic perspective (Gulf Research Center 2014). Per l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale ha coordinato il rapporto New (and old) patterns of jihadism: al-Qa‘ida, the Islamic State and beyond (2014). Con Riccardo Redaelli è autore di L’Iraq contemporaneo (Carocci 2013).


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