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Ivo Lizzola

Passare dal conflitto alla danza della cura: la ricostruzione comincia qui

di Sara De Carli

La paura ci spinge al conflitto e a credere che l'altro ci metta a rischio. Ma l'esperienza radicale e per molti versi inedita di queste settimane è che proteggendo me stesso proteggo l'altro e viceversa, come in una danza. «Qui si vince tutti insieme o si perde tutti insieme», dice Ivo Lizzola. La ricostruzione? «I giovani da soli non bastano, anche gli adulti devono essere protagonisti, con una grande capacità di impresa e di rischio, con una voglia di futuro che non ha caratterizzato per nulla gli ultimi decenni»

C’è la dottoressa che lavora in terapia intensiva, fa il medico anestesista e quando torna a casa i vicini la vedono come un’untrice e la allontanano. Oppure i vigili della polizia locale di Nembro, nella bergamasca, che sono stati dileggiati sui social, accusati di aver sequestrato le mascherine e di “divertirsi” a dare multe, «quando stanno lavorando come matti, passano i turni a consegnare materiali alle persone più fragili. Ma la paura non fa vedere tutto questo, ci si sente così esposti in prima persona da rendere cieca l’evidenza che c’è chi è molto più fragile di noi, verso cui è giusto essere molto più attenti. E ci rende ciechi anche verso un tessuto di attenzione e di cura reciproca che invece c’è». Il professor Ivo Lizzola vive in uno dei paesi della bergamasca che sono stati più drammaticamente colpiti dal Coronavirus. Insegna all’Università di Bergamo. Si occupa di pedagogia sociale. Fra i tanti progetti che sta seguendo c’è “COnTatto”, giunto al suo terzo anno, un progetto welfare di comunità finanziato da Fondazione Cariplo: si svolge su Como e alcuni comuni della provincia, gli interventi riparativi non si limitano a coinvolgere i confliggenti, ma l’intera comunità all’interno della quale il danno è avvenuto. La logica è quella delle “città riparative” «che è una traduzione delle “restorative city” europee, anche se “riparative” non mi piace molto, perché non è giustizia riparativa ma rigenerativa di legami», dice.


Il tema del conflitto è molto attuale. Ci sono anche i primi segnali di una potenziale tensione sociale che non possiamo permetterci. Può aiutarci a leggere questi giorni?
L’altro giorno ero in videoconferenza con 600 medici di terapia intensiva, infermieri, personale sanitario, da tutta Italia. In questi professionisti c’è il bisogno urgente di riflettere su ciò che stanno vivendo, sul come reggere la morte, la fatica, l’impossibilità di tornare a casa – perché tantissimi vivono perennemente in ospedale da 30 giorni… È emersa anche la fatica nel reggere la paura. La paura è un pericolosissimo motore di conflitti e di difficoltà nel rapporto con l’altro, quando non ha luoghi per passare dentro la parola e l’incontro. La paura può far sentire solitudini insostenibili: le due infermiere che la scorsa settimana si sono suicidate vivevano dentro di sé un conflitto pesantissimo, fra l’impotenza e il senso di colpa. La paura fa emergere i fondi scuri delle persone: la dottoressa anestesista che lavora in terapia intensiva e che quando torna a casa viene vista come l’untrice e allontanata dai vicini; i vigili della polizia locale di Nembro, qui nella bergamasca, che vengono dileggiati sui social da persone impaurite, accusati di aver sequestrato mascherine e di dare solo multe, quando stanno lavorando come matti, passano i turni a consegnare materiali alle persone più fragili… Ma la paura non fa vedere tutto questo, ci si sente così esposti da rendere cieca anche l’evidenza che c’è chi è molto più fragile di noi, verso cui è giusto essere molto più attenti. La paura, vissuta da soli, ci avvelena.

La paura è un pericolosissimo motore di conflitti e di difficoltà nel rapporto con l’altro, quando non ha luoghi per passare dentro la parola e l’incontro. Ci si sente così esposti da rendere cieca anche l’evidenza che c’è chi è molto più fragile di noi, verso cui è giusto essere più attenti. La paura, vissuta da soli, ci avvelena. Passare dalla paura alla veglia reciproca è possibile, ma ci vogliono dei percorsi di accompagnamento, di pedagogia sociale. Se non lo facciamo, rischiamo di impedire la costruzione del dopo

Ivo Lizzola

Ed esiste un’alternativa?
Lo abbiamo visto in questi anni ad esempio nel progetto ConTatto: ascoltare le paure degli altri può diventare un motore di riavvicinamento. La paura può riavvicinare, essere anche il motore di un’attenzione e una cura reciproca ma a patto che sia educata. Passare dalla paura alla veglia reciproca è possibile, ma non avviene automaticamente: ci vogliono dei percorsi di accompagnamento, di pedagogia sociale. La veglia reciproca chiede l’affidamento gli uni agli altri mentre i tempi che viviamo rischiano di stressare la fiducia sociale, non solo quella verso le istituzioni ma anche quella tra vicini.

E si può fare, ora, questa pedagogia sociale che ci porti dalla paura alla veglia reciproca?
Si può fare anche ora, sì. Anzi, bisogna farla ora. Perché se non lo facciamo, rischiamo di impedire la costruzione del dopo. Dobbiamo smettere di rappresentare l’altro come quello che si è difeso, lasciando me esposto. Come si fa? Facendo girare buone storie, buoni racconti. A Como abbiamo accompagnato molte situazioni in cui le persone erano rose dalle contrapposizioni e dalle rappresentazioni reciproche: mettendo le persone in contatto con storie di buoni incontri e di fiducia, quei costrutti interiori sono venuti meno, i linguaggi sono cambiati e sono avvenuti di nuovo gli incontri. Abbiamo bisogno di abitare rappresentazioni buone. Possiamo dar voce sui media alle pratiche incredibili di volontariato che si stanno moltiplicando: a Bergamo in un solo giorno 350 giovani hanno risposto all’appello ad “adottare” anziani del quartiere per tenere i contatti con loro, aiutarli con la spesa, i farmaci. Con una alleanza intergenerazionale commovente: adesso la vitalità è dei giovani e la fragilità è degli over65, ma questa alleanza è preziosissima e potrebbe aiutare le paure ad evolvere verso la veglia e non verso il rancore o la costruzione di capri espiatori. Bisogna che ci si possa dire che se io non posso stare vicino ai miei genitori anziani, là nel loro condominio c’è però una giovane coppia che li “adotta”, proprio come sto provando a fare io qui nel mio quartiere con un’altra coppia di anziani. Ecco, queste fraternità sociali fra sconosciuti o queste parentele di adozione vanno raccontate. Io ho avuto due zie ricoverate per Coronavirus, una purtroppo è morta: le mie cugine e i miei cugini non le hanno più viste, ma in quelle due settimane è stato prezioso sapere che accanto a loro c’era qualcuno che le accarezzava, le guardava, c’era un infermiere che appuntava su un foglio quella frase che lei aveva detto, così che alla telefonata quotidiana i figli sapessero proprio quella frase, quelle parole della zia. Essere vicini per interposta persona, per adozione d’altri, essere vicini ai vicini degli altri: questo è prezioso. Sarebbe interessante serbare tutte queste storie di dedizione semplice e gratuita, di gesti fatti in spirito di gratuità. Sta emergendo anche una consapevolezza nuova del volontariato.

Abbiamo bisogno di abitare rappresentazioni buone. Essere vicini per interposta persona, per adozione d’altri, essere vicini ai vicini degli altri: questo è prezioso. Sarebbe interessante serbare tutte queste storie di dedizioni semplice e gratuita, di gesti fatti in spirito di gratuità. Fino a ieri abbiamo pensato che il volontariato fosse una dimensione del tempo del non-lavoro e delle relazioni gratuite esterne. Oggi ci accorgiamo che la gratuità è una qualità del gesto che può essere propria anche dell’attività professionale, del proprio ruolo ben esercitato: anche quei gesti possono aver dentro una volontà di bene

Quale?
Fino a ieri abbiamo pensato che il volontariato fosse una dimensione del tempo del non-lavoro e delle relazioni gratuite esterne. Oggi ci accorgiamo che la gratuità è una qualità del gesto che può essere propria anche dell’attività professionale, del proprio ruolo ben esercitato: anche quei gesti possono aver dentro una volontà buona e una volontà di bene. La vedi la differenza tra chi fa il proprio lavoro e chi lo fa con una volontà di bene, anche nei panettieri. Queste cose vanno portate sulla piazza dei social, visto che in questo momento non c’è la piazza reale. Tutto ciò che è fatto per altri. Una cura per altri. Stiamo scoprendo una cosa formidabile, cioè che la cura di noi stessi è cura d’altri e la cura d’altri è cura di noi stessi. Proteggendo noi stessi, stiamo proteggendo gli altri e viceversa proteggendo gli altri proteggiamo noi stessi. Noi, curando gli altri quando sono fragili, lo stiamo facendo per noi. È una danza della cura quella di queste settimane, ed è meravigliosa. Una danza che non ci chiede di essere donne e uomini perfetti o buoni, non per forza innocenti o altruisti ma semplicemente umani, consapevoli dell’importanza delle relazioni. Invece nel gioco della cura che di solito giochiamo siamo abituati a distinguere bene i ruoli fra chi cura e chi è curato. Qui i social possono avere un ruolo importante, perché i seminatori dell’odio hanno sempre bisogno di coltivare la paura e di dare la colpa a un altro, di cavalcare l’idea che l’altro se ne approfitta sempre.

Ci stiamo accorgendo che la cura di noi stessi è cura d’altri e la cura d’altri è cura di noi stessi. È una danza della cura quella di queste settimane, ed è meravigliosa. Una danza che non ci chiede di essere donne e uomini perfetti o buoni, non per forza innocenti o altruisti ma semplicemente umani, consapevoli dell’importanza delle relazioni.

Perché questa reciprocità è un po’ la leva per l'oggi?
Noi domani ci troveremo a vivere diseguaglianze più marcate di quelle di ieri, perché è vero che in questa stagione c’è chi riesce a proteggersi di più e chi di meno: un conto è proteggersi in 40 mq in quattro e un altro in 300 mq. Ci sarà un impoverimento, perché milioni di persone non avranno un reddito, tanti amici piccoli artigiani stanno già pensando che dovranno reinventersi l’attività. Ci sarà più diseguaglianza, ci sarà bisogno di includerci reciprocamente nelle storie gli uni degli altri. Un giovane amico che lavora in nell’assistenza domiciliare, Stefano, mi ha detto che “dopo bisognerà vivere una nuova ricostruzione”. È vero. Ci stanno morendo tra le braccia le persone che hanno fatto la ricostruzione negli anni ‘50: hanno vissuto una costruzione generosa per aprire il futuro di tutti, innanzitutto per i loro figli, ma anche per tutti i figli degli altri. Era il loro modo di esser adulti. D’altronde l’adulto è adulto perché cura il futuro degli altri, perché esprime la paternità/maternità al di là dell’avere o meno figli: donne e uomini diventano adulti quando smettono di pensare a se stessi.

Da dove può partire la ricostruzione?
Stanno morendo queste persone, in tantissime, senza rosari, ricordi, funerali, senso di debito… senza il rito del commiato. Le loro memorie vengono perse e noi dovremo riseminare quelle memorie, perché la generazione dei 25/30enni sia capace davvero di una ricostruzione che richiede – nelle disuguaglianze e nella povertà – una generosità e uno sguardo di futuro, senso di debito e di dignità personale molto forti. Altrimenti le grandi ideologie del merito e del successo, che spero finite, e quelle del rancore sociale rabbioso che legge tutto un po’ disperatamente in termini di diritti per sé, faranno da barriera alla possibilità di ricostruire i legami e di creare un nuovo inizio. Ci sarà bisogno di riti di riconciliazione e di progetti di dedizione reciproca e per farlo servono risorse, intelligenza ma anche atteggiamenti interiori adatti. Servirà un senso forte di destinazione dei propri gesti ad altro, bisognerà pensare ai figli e ai nipoti.

L’adulto è tale perché cura il futuro degli altri, perché esprime la paternità/maternità al di là dell’avere o meno figli: donne e uomini diventano adulti quando smettono di pensare a se stessi. I giovani dovranno ricostruire, però da soli non bastano. Hanno bisogno di una riseminazione delle memorie di chi resta. Gli adulti devono essere protagonisti anch’essi, con un grande capacità di impresa e di rischio, con una voglia di futuro che non ha caratterizzato per nulla gli ultimi decenni.

Un compiuto storico epocale, per una generazione che fino a ieri abbiamo tenuto “in panchina”.
Li abbiamo un po’ tenuti in panchina, è vero. Ma chi non lo ha fatto, chi li ha messi alla prova, sa che possiamo guardare a loro con una grandissima fiducia. Però da soli non bastano. Hanno bisogno di una riseminazione delle memorie di chi resta. Gli adulti devono essere protagonisti anch’essi, con un grande capacità di impresa e di rischio, con una voglia di futuro che non ha caratterizzato per nulla gli ultimi decenni. Basta con l’atteggiamento dell’Europa del Nord, fredda e indifferente. Con l’atteggiamento di alcuni ambienti garantiti. Torno a ripetere, l’adulto è adulto quando non pensa più a se stesso ma cura il futuro degli altri. Ci sarà bisogno quindi di una trasformazione dei giovani ma anche di un mondo adulto e anziano che sia non solo assistito ma chiamato a giocare la responsabilità delle sue memorie e delle sue energie, seppur fragili. Perché l’altro rischio che c’è dietro l’angolo oggi è l’idea che non possiamo più sopportare tanta anzianità/ fragilità, per cui compassionevolmente possiamo avviare le persone verso percorsi rapidi di fine. In queste settimane ho letto contributi che stanno giustificando questa insopportabilità della fragilità.

Siamo a un bivio su questo aspetto?
Se c’è una acquisizione del terribile secolo scorso, che è stato anche il secolo dei genocidi, è l’essere diventati sensibili alle vittime degli altri, l’aver provato a tener dentro le fragilità il più possibile, non solo nei paesi ricchi. È stato una specie di salto di umanità. Adesso rischiamo di giocarcelo. Le opzioni sono due, o ce lo giochiamo o lo consolidiamo. “Dopo” non ci sarà una terza o una via di mezzo: o ci sarà una nuova selezione durissima o una nuova capacità di coltivare la convivenza e le prossimità. Dobbiamo adesso fare in modo che i conflitti e le paure non si radichino, non diventino distanze e non avvelenino le speranze. Ricordando però che ci sono anche speranze rancide: quelle rivolte al passato, al tenere le posizioni, al non perdere…

Il rischio che c’è dietro l’angolo è l’idea che non possiamo più sopportare tanta anzianità/ fragilità, per cui compassionevolmente possiamo avviare le persone verso percorsi rapidi di vita. “Dopo” non ci sarà una terza o una via di mezzo: o ci sarà una nuova selezione durissima o una nuova capacità di coltivare la convivenza e le prossimità.

Stiamo tutti facendo una riflessione sull’opportunità o la pericolosità di un linguaggio centrato tutto sulla metafora della guerra, della prima linea, del fronte.
I primi a rifiutare questo linguaggio sono gli operatori della cura, perché li obbliga a vivere la loro quotidianità in termini di vittoria e sconfitta. Mentre anche il gesto che non riesce a salvare ma continua a curare, ha il valore preziosissimo dell’accompagnamento, è anch’esso vittoria, non sconfitta. La medicina in queste settimane si sta molto ripensando dentro al suo limite. Le parole della guerra sono inadeguate alle esperienze che stanno maturando. Qui si vince tutti insieme o si perde tutti insieme. Qui si vince non lasciando nessuno solo. La logica della guerra è mors tua, vita mea ma come dicevamo prima oggi noi dobbiamo proteggerci reciprocamente: vita tua, vita mea. Fra noi c’è un intreccio inevitabile, l’altro oggi mi è necessario. Certo nella sua responsabilità e attenzione, che io evocherò se sono attento per primo. Prima del diritto, ricordiamocelo, c’è l’obbligazione reciproca. Questa è Simone Weil. È il legame che ti precede e ti garantisce il diritto. Questo ci dà fastidio come uomini occidentali autosufficienti, come uomini del merito, ma vediamo quanto è il vero delle relazioni fra noi. Prima il legame, poi io: tutti siamo figli, prima di noi per tutti noi c’è stato il legame. Questa è la vita.

Foto scattata a Brescia, Matteo Biatta/Ag Sintesi


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