Anna Barbaro

«La mia gara più lunga? Dimostrare che si può fare, anche in Calabria»

di Redazione

Anna Barbaro ha conquistato la medaglia d'argento nel triathlon alle paralimpiadi di Tokyo il 28 agosto scorso, la prima della Calabria. «Spero che tutto il comitato paralimpico faccia tanti passi avanti in Calabria», dice. «Facciamo vedere una Regione che vuole rinascere, che guarda il bicchiere mezzo pieno e non vuoto. Credo che da ciascuno di noi debba partire una spinta interiore in questo senso e poi diventare della comunità»

«Sembra un sogno invece è accaduto davvero»: ha un nodo alla gola Anna Barbaro mentre ripensa all’argento conquistato nel triathlon PTVI alle paralimpiadi di Tokyo il 28 agosto scorso. Settecentocinquanta metri di nuoto, poi venti chilometri di ciclismo e cinque di corsa, affrontati con un tasso di umidità dell’80% in partenza e aumentato durante la giornata. I fotogrammi che la ritraggono insieme alla guida Charlotte Bonin con la bandiera italiana sulle spalle nel rettilineo finale sono già storia. La prima medaglia paralimpica della Calabria arriva da una gara che parte da lontano.

Che significa essere atleta paralimpico in Calabria, sia emotivamente che praticamente?
A livello emotivo, il mio percorso e questa medaglia sono stati come dire “Svegliamoci!”. Possiamo trovare tutte le scuse del mondo, dare la colpa agli altri, ma siamo anche noi che dobbiamo darci una mossa, trovare una soluzione ad ogni problema. Ripartiamo da qui, facciamo vedere una Calabria che vuole rinascere, che guarda il bicchiere mezzo pieno e non vuoto. Credo che da ciascuno di noi debba partire una spinta interiore in questo senso e poi diventare della comunità. A livello pratico ne ho passate tante, tra guide che mi hanno dato buca, mi hanno detto che non ero un’atleta, infrastrutture che prima mi hanno accolta e poi non più, oppure mi davano orari a incastro per gli allenamenti, ma sono cose che si sanno e si ripetono. Facciamole le cose, invece di parlare e basta. Abbiamo una terra che potrebbero invidiarci ma non le facciamo fare il salto di qualità: il triathlon potrebbe avere terra fertile in Calabria, potrebbe essere praticato tutto l’anno. Le potenzialità ci sono tutte: ci si potrebbe allenare con la corsa sia in montagna sullo sterrato sia sul litorale, si potrebbero fare combinati, ovvero allenamenti di più discipline, quindi dal mare prendere la bici e pedalare su lungomari chilometrici, poi posarla e mettersi a correre. Ma per le bici ci vogliono percorsi sicuri e appositi. Occorre rendere le città civili, perché avere una pista ciclabile degna di questo nome è civiltà. Anche sulla disabilità occorre crescere moltissimo: mancano percorsi per i non-vedenti, basilari per potersi muovere in autonomia. A me non piace dire inclusione, bensì parlare di persone che vogliono vivere la propria città: il posto in cui viviamo lo dobbiamo rendere vivibile per tutti, dal vecchietto alla persona con una problematica fisica fino al ragazzo che è caduto e sta temporaneamente in stampelle.

Come ci si prepara ad un’Olimpiade?
È tosta, specie con una pandemia di mezzo. Sei in una bolla, per te non è mai zona bianca, non puoi rischiare che qualcuno si avvicini e ti contagi. Hai una cerchia ristrettissima, che incontri comunque raramente: anche i compagni di vita devono farsi i tamponi ogni 48 ore, ci sono tante restrizioni per chi ti vuole bene, per noi è una scelta, per loro lo diventa. Ho iniziato a prepararmi nel 2018, ho fatto avanti e indietro tra Verona e Reggio Calabria per mesi. Quando è iniziata la pandemia non potevo spostarmi, mi sono allenata a Reggio con una minipalestra ricavata a casa e da maggio 2020 ho cominciato a nuotare a mare, ringrazio le forze dell’ordine che mi hanno dato un grosso aiuto. A novembre ho iniziato a lavorare come centralinista e da marzo ho avuto la possibilità di poter usufruire delle missioni per allenarmi, grazie alle Fiamme Azzurre che hanno puntato su di me: le missioni sono permessi speciali che vengono dati agli atleti normodotati dopo la convocazione, non sono usuali per i paralimpici, credo di essere il primo caso. Grazie alle missioni ho potuto prepararmi al meglio.

Come hai vissuto la gara?
Ho iniziato un po’ tanto ad avere paura in camera di chiamata, perché c’è stata una preparazione di anni per arrivare a questa gara. Poi però mi son detta di non farmi fregare dalla negatività: ho pensato alla mia famiglia a casa e con la mia guida abbiamo deciso di sorridere e salutare, sorridere e divertirci. L’adrenalina è salita con i tamburi prima del via. Al via ho provato un’emozione immensa. Nel nuoto speravo di arrivare davanti, non è successo, poi sulla bici ho avuto davvero caldo: nella corsa mi sono ripresa perché c’erano i punti di ristoro in cui mi buttavano l’acqua addosso e sono riuscita a rimanere lucida. Anche questa è stata una sorpresa, non mi sarei mai aspettata di rimanere lucida nella corsa che è la mia frazione più debole. Dopo i primi due giri, quando abbiamo capito che non avremmo tenuto il passo delle spagnole, abbiamo dosato le energie; negli ultimi due giri invece riuscire a mantenere la freddezza è stato tutto dire! Charlie si è allontanata per prendere la bandiera, poi mi sono riavvicinata a lei, mi parlava, ‘Ci siamo, ci siamo’, ho preso la bandiera in mano e all’arrivo non ho capito più niente (ride, ndr).

Che significa gareggiare in due?
Ringrazio tutte le guide che ho avuto, ciascuna mi ha insegnato qualcosa e quattro di loro mi hanno aiutato a raggiungere questo traguardo: le ho chiamate una ad una quando mi sono qualificata per Tokyo, per la loro vicinanza e per avermi dedicato del tempo. Infatti sono atleti che si accostano a noi come volontari, ed è un problema: l’Italia ha bisogno di atleti guida che aiutino noi non vedenti, senza non possiamo nemmeno allenarci. Nel 2019 hanno proposto a Charlie questa cosa, lei aveva finito a Rio la sua carriera dopo due Olimpiadi e ha accettato volentieri di riprendere in modo diverso. Oggi siamo amiche al di fuori del triathlon, molto vicine ma ciascuna rispetta lo spazio dell’altra, almeno spero sia così!

Come hai maturato questa spinta interiore che ti fa raggiungere questi straordinari risultati?
Ho un percorso nel volontariato, prima come Gioventù Francescana poi all’interno dell’Unitalsi, e ho fatto servizio civile ai non vedenti. Sono sempre stata una persona curiosa, magari prima non ero molto loquace ma ho sempre fatto tante domande: sono arrivata a bendarmi per capire come le persone non vedenti scendessero le scale, facevo lunghe camminate con un signore che mi raccontava e rispondeva alle mie curiosità. A luglio 2010 ho iniziato ad avere i primi problemi di vista, a marzo 2011 non riconoscevo più nulla, distinguevo solo giorno e notte, come adesso. È stato un percorso graduale: da ottobre-novembre, tutte le persone non vedenti che avevo aiutato, mi hanno aiutato. Mi preparavano non da ipovedente ma da non vedente, al peggio. Mi sono affidata a loro ma nello stesso tempo mi ripetevo che non era possibile perdere la vista e mi ero abbattuta. Quando mio padre ha visto che per un paio di giorni non volevo andare da loro a studiare, mi ha portato in piscina. Un giorno di aprile ho incontrato la dottoressa che mi stava seguendo, mi ha detto che avevo un virus sconosciuto di cui non si sapeva la provenienza né la progressione. E ha aggiunto: "Vivi giorno per giorno". Mi è venuto un flash di tutti i mesi precedenti, ricordavo tutto, mi avevano detto che potevo avere un tumore, una leucemia fulminante, che avrei potuto non esserci. Ho pensato: ‘Davvero devo vivere giorno per giorno, ogni giorno ringraziare perché ci sono e ho la possibilità di vivere l’oggi, andare a dormire stanca fisicamente e mentalmente per aver vissuto appieno e non aver sprecato la giornata’. Da lì, tutto quello che pensavo da vedente si è amplificato. Cose semplici, che spesso non si realizzano perché è più facile fermarsi prima. Mi sono detta: ‘Devo dimostrare che arriverò fino alla fine’. Questa è stata la mia gara, che è durata tanti anni. Non ero sportiva quando vedevo, pesavo 20 chili in più, mi dicevano che non avrei fatto niente nello sport. Da lì è nata la mia forza: sto dimostrando, voglio dare prova tangibile che si può fare in tutto, non solo nello sport. Quello che si inizia occorre farlo bene, non tanto per fare. E da lì mi sono spinta sempre più avanti: ho avuto fame di cose nuove, di conoscere. Prima le gare di nuoto, poi la traversata dello Stretto, poi gare di atletica e quindi il triathlon con le gare nazionali e internazionali.

Hai incoraggiato a non aver paura di uscire di casa: quali possono essere i blocchi?
Possono essere tanti, perché la paura a volte è un mostro. Se hai il problema da quando sei nato, dipende da come vieni aiutato, da quanta conoscenza hai delle tue possibilità e di quante abilità ti hanno fatto sviluppare oltre che da quanto sei cosciente; se lo diventi, ti cade il mondo addosso e devi essere bravo a reagire e trovare le persone giuste che ti indirizzano. La paura di uscire è la paura di chiedere aiuto. Di riconoscere che ti devi fare accompagnare e poi renderti autonomo. Io ci sono, ma ci sono anche altre persone preparate che possono supportare. Devo ringraziare mia mamma, che mi spiegava le cose massimo tre volte e poi si allontanava piano piano e mi guardava da lontano. Per me è stata poi fondamentale la figura del cane-guida: per averlo occorre sviluppare orientamento, mobilità, determinate caratteristiche. Lo sport mi ha aiutato a conoscere il mio corpo nella nuova dimensione e ad avere un cane guida prima possibile: Nora è arrivata nel 2012 ed è stato un riscatto di libertà che niente e nessuno avrebbe potuto darmi. Io vado a fare la spesa con il cane, ho ripreso in mano la mia vita e faccio le mie cose.

Che progetti hai per il futuro?
Il mio ragazzo mi ha fatto la proposta di matrimonio prima di partire per Tokyo, sto cercando di sposarmi (ride). Poi spero che tutto il comitato paralimpico faccia tanti passi avanti in Calabria, li faremo insieme. Vorrei dedicarmi a far crescere la ASD Polisportiva Team14, specializzata nel settore paralimpico, che ho co-fondato insieme al mio allenatore nel 2014. In squadra ci sono persone di tutte le età, dai bimbi piccoli ai 40enni, e con tutte le disabilità: fisiche, sensoriali, intellettivo-relazionali. Si tende a separare le disabilità, unirle invece crea ancora più rete. Come consigliere provinciale dell’Unione Italiana Ciechi mi sento in prima linea per le persone che vivono la mia stessa difficoltà: vorrei essere presente qui in Calabria, perché qui c’è bisogno. Voglio far crescere la mia terra. E se alle parole non seguiranno i fatti, venite a tirarmi le orecchie!

Che cosa significa per te in tre aggettivi essere calabrese?
Sicuramente testarda. Attaccata al territorio. E resiliente: cadiamo tante volte, ma altrettante ci rialziamo e riusciamo a perseverare.


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