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Gianluca Ruggieri

Comunità energetiche: quando l’energia green la facciamo a casa nostra

di Luca Cereda

Gianluca Ruggieri, ingegnere ambientale: «Le comunità energetiche fanno bene all’ambiente e alle tasche di chi le costituisce. Quando ricorreremo in modo significativo ad eolico e fotovoltaico, fonti intermittenti e non governabili, ci sarà bisogno di flessibilità e di accumuli di energia: un sistema in cui le comunità sono essenziali, anzi sono il perno centrale, perché rendono i cittadini attori partecipi della transizione riducendo il potere dei grandi potentati energetici, a cominciare da Russia o Emirati arabi o aziende»

Con la transizione ecologica e quella energetica faticosamente avviate, c’è la volontà di governi e cittadini di ridurre il consumo di energia prodotta da materie fossili per il bene del pianeta ma anche con lo scopo di trovare soluzioni per evitare che il bilancio familiare imploda per via del costo dell’energia e quindi del “caro bolletta”. Una possibile soluzione sono le comunità energetiche e le forme dal basso di produzione e gestione dell’energia. Ne abbiamo parlato con il professor Gianluca Ruggieri, ingegnere ambientale, ricercatore all’Università Insubria e vice presidente di ènostra la prima cooperativa energetica in Italia.

Innanzitutto cosa diciamo quando parliamo di comunità energetiche, insomma, in cosa consistono?
Le comunità energetiche sono un’estensione del concetto di autoconsumo di energia rinnovabile. In Italia ci sono circa un milione di impianti fotovoltaici, per la maggior parte realizzati su edifici privati al servizio delle utenze domestiche o delle aziende. Questa energia viene usata per fare la lavatrice, per caricare l’auto elettrica o il cellulare. Prima della nascita delle comunità energetiche se c’era un avanzo di produzione energetica non si poteva dare, ad esempio, al vicino di casa del piano di sotto, ma solo alla “rete”, al servizio collettivo. Oggi ci sono due possibilità: si può condividere questa energia nello stesso edificio disponendo di un solo impianto collettivo per tutti i condomini. Lo stesso principio può essere esteso ad altri edifici vicini, ma anche lontani – fino alla cabina primaria di distribuzione sul territorio, in questo caso si crea una comunità energetica.

Quanto grandi possono diventare le comunità energetiche e come si costruiscono, formalmente?
Parliamo di frazioni di grandi città, o di comuni interi se si tratta di quelli medio-piccoli: sono comunità che possono avere centinaia se non migliaia di aderenti. All’interno della comunità energetica ci sono diversi impianti condivisi per la produzione di energia, da fonti rinnovabili come dai pannelli fotovoltaici, nella maggior parte dei casi, e questa energia viene redistribuita a tutte le utenze “iscritte” alla comunità energetica. Ogni comunità ha bisogno di un atto costitutivo, come la creazione di una cooperativa, anche se non è l’unica possibilità: resta il fatto che ci deve essere un ente giuridico che regoli i rapporti all’intento degli aderenti.

Il costo dell’energia – per molti motivi che non abbiamo qui lo spazio di elencare – è aumentato da alcuni mesi, e la prima conseguenza è la crescita delle bollette per le famiglie e per le aziende. A che ritmo le comunità energetiche sono in crescita e possono essere una risposta a questa “crisi energetica”?
L’aumento dei prezzi odierni è legato al costo del gas. Che si ripercuote in modo diretto sulla bolletta del gas per il riscaldamento e per cucinare, ma anche in modo indiretto sul costo dell’energia elettrica perché una quota importante viene prodotta con il gas naturale. Tutto quello che permette di evitare il ricorso al questa fonte fossile, ovviamente, porta ad un beneficio economico, che se due anni fa era difficile da “vedere” sul medio-breve periodo, oggi diventa un beneficio economico enorme. E immediato. In più, nelle comunità energetiche, la quota di energia che viene consumata in contemporanea alla produzione viene dato un incentivo economico che fa crescere il valore dell’investimento, facendo diminuire la bolletta.

Ci fa qualche esempio concreto, provando a illuminare anche gli aspetti sociali delle comunità energetiche?
Le comunità energetiche sono state introdotte da due direttive europee, quella sull’energia rinnovabile e quella sul mercato interno, grazie anche all’azione di un deputato italiano, Dario Tamburrano. Dico questo perché le direttive europea puntano a far avere benefici locali e socio-economici e non sono un asset adatto per i grandi investitori. Le comunità energetiche sono pensate per essere funzionali “dal basso” e per i cittadini. È un modo per portare i benefici della transizione energetica a livello locale.
Ci sono dei casi in cui è il comune stesso – medio-piccolo – che va a investire un avanzo di bilancio per realizzare un impianto fotovoltaico che mette poi a disposizione della comunità. In questa comunità energetica nata per volontà dell’amministrazione partecipano le famiglie a basso reddito. Questi nuclei familiari “svantaggiati”, senza aver fatto un investimento di tasca loro si trovano un beneficio in bolletta. E questo risolva il problema della povertà energetica. Gli “utili” della produzione di energia possono essere reinvestiti: ho in mente un caso di un comune in Puglia che ha sfruttato la vendita di energia per finanziare la costruzione delle casette dell’acqua.

A metà febbraio il Consiglio Regionale lombardo ha approvato la legge sulle Comunità Energetiche Rinnovabili, riconoscendone le finalità mutualistiche e il ruolo della cooperazione. A livello nazionale c’è poi la “partita” del Pnrr: in che direzione, con questi sostegni, andranno le comunità energetiche, vedranno sempre più partecipazione dal basso?
Innanzitutto a fine 2021 è stato pubblicato il decreto di recepimento della direttiva Europa sulle comunità energetiche. E stiamo aspettando ancora alcuni decreti attuativi. C’è la misura prevista dal Pnnr che riguarda il finanziamento a tasso agevolato – non a fondo perduto – nei comuni sotto i 5 mila abitanti, e infine c’è la fresca norma lombarda che segnala che anche a livello regionale c’è un’interesse a sviluppare queste iniziative anche grazie ai soldi europei che la regione può spendere, sostegno che per equilibrare le risorse andranno ai comuni medio-grandi.

Nel frattempo in Europa si è parlato tanto del gas, non solo per l’aumento del costo, ma perché non va bene inserirlo nella tassonomia delle fonti utili alla transizione ecologica. C’è addirittura chi dice che dobbiamo aumentare la produzione. Su questo fronte si può fare di più e come cambia la visione d’insieme della situazione energetica per i cittadini che sono anche membri di comunità energetiche?
La tassonomia dovrebbe qualificare ed identificare gli investimenti “verdi”, non è una definizione che poi proibisca di fare altri tipi di investimenti. Trovo un controsenso inserire una fonte fossile in questa tassonomia. Questo non toglie che il gas naturale possa avere un ruolo nella transizione ecologica. Però in Italia la transizione dal dal carbone al gas l’abbiamo già fatta dagli anni ‘80. Meno del 4% dell’energia nostrana arriva dal carbone, a fronte del 40% che deriva dal gas. La prossima transizione su cui lavorare è da gas a rinnovabili e da petrolio a rinnovabili. Diversa è la situazione di Polonia e Germania che dipendono ancora in buona parte dal carbone, hanno bisogno di pensare ad una transizione che avvenga anche attraverso il gas naturale.

Il rischio non è quello di dedicare sforzi e risorse al passaggio al gas, fermando la transizione verso le rinnovabili? E torniamo da dove siamo partiti: quale sarà il ruolo delle comunità energetiche?
Certamente. Resta il fatto che in Italia la strada è chiara e non occorrono vie di mezzo. Le comunità energetiche le seguo da quando non erano nelle agende politiche nazionali ed europee. Credo che non siano la panacea di tutti i mali, ma che rientrino in un percorso di ridefinizione del nostro sistema energetico nel suo complesso. Sistema energetico che voglio sottolineare non è solo l’energia elettrica, ma dobbiamo – ad esempio – cambiare il modo con cui riscaldiamo gli edifici, così come alimentiamo i mezzi di trasporto. Andiamo verso un sistema in cui non abbiamo più un’offerta dell’elettricità che segue una domanda, ma un sistema in cui domanda e offerta si inseguono reciprocamente anche durante la stessa giornata. Perché quando ricorreremo in modo significato ad eolico e fotovoltaico – fonti intermittenti e non governabili – c’è bisogno di flessibilità e di accumuli di energia. Un sistema in cui le comunità sono essenziali, anzi di più sono il perno centrale, perché rendono i cittadini attori partecipi della transizione riducendo il potere dei grandi potentati energetici, ovvero alcuni Stati come la Russia o gli Emirati arabi, o aziende.


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