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Luigi Manconi

Ucraina, non chiediamo alle vittime di scomparire

di Giampaolo Cerri

L'ex-senatore interviene nel dibattito sull'anno zero del pacifismo, all'interno del numero di VITA in edicola. "C’è un tale effluvio, incontenibile, di geopolitica, di strategismo, di analisi delle sfere di influenza, che può sopraffare le vittime, oscurate da questo surplus di genealogia delle cause e delle concause", dice. La lezione di Alex Langer

Nel numero di Aprile di VITA, che trovate in edicola, in libreria e che potete acquistare qui, abbiamo chiesto a alcuni intellettuali di riflettere intorno alla fase che il pacifismo italiano si trova ad affrontare con la guerra in Ucraina. Luigi Manconi è fra questi. Pubblichiamo qui, la sua intervista integrale.

Luigi Manconi, c’è una parola da cui il pacifismo possa ripartire?

Sicuramente c’è una parola, anzi due: ingerenza umanitaria. Non mi considero un pacifista ma ne ho grande rispetto e assidue frequentazione, familiarità, amicizia. Nel 1991, all’epoca della Guerra del Golfo, padre Ernesto Balducci discusse con me proprio su questo tema, perché avevo mosso critiche al pacifismo dell’epoca.

Balducci, un grande uomo di pace…

Di un pacifismo profetico, vivaddio, che deve esserci. Abbiamo bisogno di profeti, di chi ci dica che la pace, non solo è raggiungibile ma che, a determinate condizioni, è a portata di mano, affinché non ci precipitiamo in una spirale iperrealista, che possa limitare la nostra lucidità. Ma non apprezzo il pacifismo in politica. In chi agisce nella sfera pubblica, nei decisori: a questi è domandata una stretta relazione fra fini e mezzi.

E dunque il pacifismo dovrebbe ricominciare dalla categoria dell’ingerenza umanitaria?

Sì, perché questa formula esprime immediatamente il concetto di attività, presenza, mobilitazione. Non credo nel neutralismo, neppure corretto dall’aggettivo “attivo”. L’ingerenza è la manifestazione operativa di quello slogan che Lorenzo Milani aveva preso proprio dai pacifisti americani, “I Care”, mi interessa. Significa non astraersi, non astenersi. Non è solo l’atteggiamento morale, ma l’espressione di una scelta: perché il pacifismo politico, deve avere altri due connotati, oltre questa capacità di intervenire.

Spieghiamoli.

Il rifiuto assoluto di ogni autocrazia e dunque di qualunque calcolo fondato sullo scellerato assioma: il nemico del mio nemico, è mio amico. No e poi no: l’autocrate, nemico del mio nemico, non è mio amico! Non si può avere alcun atteggiamento opportunistico nei confronti della autocrazia, neppure quando possa giocare un ruolo favorevole alla nostra strategia. Perché – questo sì che è un assioma benefico – non c’è pace senza giustizia. In quella linea, quasi diretta, che va da Tacito al Partito radicale: si deve ripetere che non c’è pace senza giustizia. E se si deve affermare la giustizia, beh talvolta i mezzi possono essere ruvidi. O pesanti. Ma c’è un’altra condizione.

Quale?

Stare dalla parte della vittime. C’è un tale effluvio, incontenibile, di geopolitica, di strategismo, di analisi delle sfere di influenza, che può sopraffare le vittime.

Come può accadere?

Questa marea montante di analisi, tutte necessarie e tutte utili, rischia questo effetto: la scomparsa delle vittime. Le regioni individuali – la donna che ha perso i figli e il marito sotto i colpi del mortaio – vengono oscurate da questo surplus di genealogia delle cause e delle concause. Con un’altra conseguenza, più atroce: le vittime scompaiono semplicemente perché viene chiesto loro di scomparire. Perché se non scompaiono, se dunque non scelgono la resa, gli effetti sono chiari: l’aumento del numero dei morti, l’acutizzarsi del conflitto, addirittura il pericolo per la sicurezza nazionale degli Stati europei.

Chiedere agli aggrediti di arrendersi, perché resistere potrebbe mettere in pericolo la nostra sicurezza…

Una perversione. Se adottiamo il criterio della ingerenza umanitaria, invece, non si può scappare. Schematizzo: se c’è l’assedio di Sarajevo, il pacifista deve mobilitarsi perché ci sia una trattativa, che sia ininterrotta, che trattino tutte le potenze mondiali e degli organismi internazionali, che si muovano i capi di tutte le chiese e tutti gli organismi terzi e indipendenti. Poi deve portare a Sarajevo medicinali e generi di prima necessità, deve assistere i vecchi e i bambini, deve curare e deve ricostruire le case abbattute.

In questo schema, chiede al pacifista di assolvere a tante funzioni.

Sì perché so che la sua sensibilità è grande ma, allo stesso militante per la pace chiedo, nel momento in cui le milizie di uno dell’altro macellaio alzano le loro spade su una donna inerme, di affrontare una doppia scelta: o frapporre il proprio corpo fra quella spada e la donna…

Oppure?

Oppure impugnare un sasso e colpire il carnefice, con ciò salvando la donna e se stesso. E lo dico pensando entrambe queste scelte come profondamente morali.

Alcune azioni di “ingerenza umanitaria”, talvolta col motivo di esportare la democrazia, sono fallite rovinosamente.

Sì certo, sono tutte strategie imperfette, penso che non siano garanzie assolute, sia una metodologia che va raffinata, approfondita. Abbiamo però pochissime esperienze: quella che chiamiamo talvolta ingerenza umanitaria, non lo è affatto. Quella degli Stati Uniti in Iraq nel 2003 non fu “ingerenza umanitaria”, per questo insisto su Sarajevo e Sebrenica e potrei dire Kiev. L’ingerenza umanitaria significa corpi di pace, polizia internazionale.

Secondo lei, che gli è stato amico, cosa direbbe Alex Langer in questo momento?

Non mi avventuro in supposizioni, dico solo che devo le mie idee attuali a quello che ho capito da Alex Langer. E che Alex aveva capito ben prima di me.

La foto in apertura è di Remo Casilli per Agenzia Sintesi


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