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Sudafrica

Nella township di Soweto dove si è eclissato il mito di Mandela

di Silvano Rubino

24 ore nella periferia di Johannesburg accompagnati da una guida particolare: Cedric. Un operatore di turismo responsabile controcorrente: “Non vendo l’icona di Mandela che i turisti internazionali venerano, ma solo il desiderio delle comunità più povere di essere rispettate come essere umani, di avere dei bianchi che camminano nelle loro strade, portando dignità, come contributo verso un cammino di libertà economica”

L’inverno è agli sgoccioli a Soweto. E il sole alto nel cielo limpido picchia sulle nostre teste di turisti in esplorazione nella township di Johannesburg simbolo della lotta all’apartheid. Ci fermiamo per acquistare un po’ d’acqua, in uno dei tanti “spaza shop”, negozietti informali. La bottega è protetta da una gabbia, si comunica con il proprietario somalo attraverso un’inferriata. Difficile distinguere le merci all’interno. Uno dei bambini del nostro gruppo mi chiede la ragione di quel negozio trasformato in prigione e io rispondo che forse è per proteggersi dai rapinatori. Risposta sbagliata, scoprirò dopo. La ragione è legata ai ricorrenti attacchi e saccheggi che i negozi gestiti da stranieri (somali, bengalesi, pakistani, nigeriani ecc) subiscono da gruppi più o meno organizzati di abitanti. Gli ultimi sono accaduti qualche giorno prima del nostro arrivo. Rabbia, frustrazione, alti tassi di disoccupazione, accuse agli stranieri di “rubare il lavoro”, di guadagnare soldi che vengono poi inviati nei paesi di origine: qualcosa di più della semplicistica etichetta “xenofobia” sotto cui vengono catalogati.

A Soweto è così: la realtà ti sbatte in faccia la sua complessità a ogni passo. A meno che tu non ti comporti come la maggior parte dei turisti: “Arrivano con i pullman, scendono nella strada dove sorge la casa-museo di Mandela, la visitano, fanno un giro tra le bancarelle e ripartono”, spiega, con un sorrisetto sarcastico, Cedric de la Harpe, ideatore di “Taste of Africa”, tour operator di turismo responsabile dentro Soweto.

Cedric, un bianco ultrasessantenne che da 15 anni ha scelto Soweto per vivere e per la sua impresa di turismo sostenibile, nel suo “pacchetto” di 24 ore nella township la casa di Mandela nemmeno la include. Ci porta velocemente all’esterno, ci racconta di come dell’originale abitazione sia rimasto poco, di come sia solo un “acchiappaturisti”. Vede un po’ di delusione sui volti di molti di noi, soprattutto sul mio: prima di questo viaggio ho letto, studiato, visto film. Pensavo di trovare un Paese unito nel ricordo e nell’omaggio al suo “liberatore”, all’uomo che lo ha portato fuori dall’incubo dell’apartheid e invece…

E invece il tour che Cedric fa fare a me, alla mia famiglia e ad altre tre famiglie che viaggiano in un gruppo di Avventure nel Mondo – Family è – appunto – un viaggio nella realtà. E la realtà è – spiega Cedric al gruppo nella sua spiegazione-fiume durante tutto il giro – che qua a Soweto l’ottimismo dei primi anni dopo la caduta dell’apartheid è solo un ricordo. Le difficoltà economiche, la corruzione nell’Anc, il partito di Mandela (l’ex presidente Jacob Zuma travolto dagli scandali è stato appena sostituito dal suo vice), la disoccupazione, la povertà, le condizioni abitative e di vita di molte migliaia di persone non sono solo benzina sul fuoco per gli attacchi contro i negozi, ma rendono il “mito di Mandela” più che mai vacillante.

Cedric lo dichiara, anche sul suo sito web: il suo obiettivo è raccontare “una storia alternativa”, mentre accompagna i turisti. E non a caso, nel tour, al posto della casa museo di Mandela, a Orlando, una tappa è la casa di John Mahapa. Quasi ottantenne, memoria storica del movimento di liberazione dei neri a Soweto: John ci fa accomodare nel suo salotto e racconta a noi e ai ragazzi le terribili condizioni in cui viveva la comunità nera negli anni 50 e la sua personale vicenda: da Scout a membro della Lega giovanile dell’Anc a fondatore del Pac (Pan Africanist Congress), movimento di ispirazione molto più radicale rispetto all’organizzazione di Mandela, alla protesta contro i lasciapassare imposti alla comunità nera, al massacro di Sharpeville, al carcere a 23 anni (anche per lui 10 anni di cui 7 nella famigerata Robben Island). Mahapa incarna l’ala che fu sconfitta nell’egemonia del movimento di liberazione dei neri in Sudafrica. Secondo Cedric oggi ingiustamente dimenticata dalla storia “mainstream”. Cedric accusa Mandela per il suo “riformismo”, la sua scelta di venire a patti con il potere, che ha significato barattare la fine dell’apartheid con il mantenimento del potere economico nelle mani dei bianchi: “La segregazione economica è il principale male”, spiega. “Senza di essa le township come Soweto non esisterebbero”.

Certo, mi dice Linah, la signora che ospita me e la mia famiglia nella sua casa (il tour di Cedric prevede anche questo, una cena e una notte in case private a contatto diretto con le famiglie di Soweto), “oggi possiamo votare, non siamo passati per guerre civili come in altri Paesi del Sudafrica. Però siamo delusi. Ci aspettavamo molto di più. E arrabbiati per la corruzione dell’Anc”. Lo zio di Linah – attivista dell’Anc negli anni 50 e 60 – è morto a Robben Island, la prigione che per 27 anni ha ospitato Nelson Mandela. “Tanti come mio zio ci sono morti. E ora cosa penserebbero del loro sacrificio?”.

Linah non parla tanto di sé e della sua famiglia. Suo figlio ha un impiego fisso, sua figlia lavora a Città del Capo per un’importante azienda edile, dopo aver potuto studiare. La loro casa, a Orlando Est, pochi passi da quella di Mandela, è in mattoni, con la televisione, acqua corrente e bagno. Fa parte di una “piccola borghesia” della township che pur tra molte difficoltà – e nel suo caso anche grazie alle entrate garantite dai soggiorni dei turisti che gli invia Cedric – riesce a cavarsela. Si riferisce ai “fratelli” che vivono poco distanti, per esempio a Numzano Park, dove le casette di mattoni – alcune sono quelle originali degli anni 30, altre più recenti e con anche qualche pretesa estetica – cedono il passo alle baracche di lamiera, dove l’acqua corrente è un ricordo, dove il canale di scolo scorre al lato della stradina sterrata.

I gruppi di Cedric arrivano anche lì, perché per lui il tour di Soweto è – come dicevo – un tour nella realtà. Che da queste parti significa soprattutto povertà. Come dichiara sul suo sito web, Cedric “non vende l’icona di Mandela che i turisti internazionali venerano, ma solo il desiderio delle comunità più povere di essere rispettate come essere umani, di avere dei bianchi che camminano nelle loro strade, portando dignità, come contributo verso un cammino di libertà economica”. Orlando Est, Numzano Park, Holimisa Settlement, Nancefield Hostel: camminiamo per oltre 6 chilometri, apparentemente siamo gli unici turisti, gli unici bianchi in giro per i vari quartieri di Soweto. Cedric ha ragione: la nostra presenza, anche nelle zone più povere, anche tra le baracche di lamiera (all’interno delle quali il caldo, già di mattina, è soffocante), non viene vissuta come un’intrusione, ma anzi, come un segno di rispetto e attenzione. L’unica regola che ci impartisce è salutare le persone, avvicinarsi, tendere la mano per il “pugno contro pugno”, che stabilisce la vicinanza. Sorrisi, domande, foto. Calci al pallone con i bambini, salti della corda. Una birra insieme nel “bar” gestito da un’anziana signora nel cortile di casa. Mai uno sguardo storto, un momento di paura o di sensazione di pericolo.

L’ultima tappa del viaggio nella realtà è il Nancefield Hostel, una delle 11 strutture costruite negli anni 50 per ospitare lavoratori migranti, che a cavallo tra anni 80 e 90, negli ultimi anni dell’apartheid, furono teatro degli scontri e dei massacri “black-on-black”, tra gli Zulu e le altre comunità, sostenitrici di Mandela e dell’Anc. Nancefield, nata per ospitare 3 mila persone, oggi ne vede ammassati 13 mila, nuclei familiari Zulu che nella maggior parte dei casi non sanno parlare inglese. I non zulu, spiega Cedric, stanno ancora alla larga da questa aree. Il mito dello “zulu cattivo”, dice Cedric, è duro a morire. In segno di rispetto andiamo nella casa di un “induna”, un capo Zulu chiamato “Teacher” e lo invitiamo a pranzare con noi. La macelleria Muthwa serve carne grigliata sul momento, accompagnata dalla polenta bianca di granturco. Si mangia rigorosamente con le mani, il pollo alla griglia leggermente speziato è squisito.

Torniamo verso a Orlando a bordo di un taxi collettivo, dalle scuole cominciano a uscire i ragazzini con le loro divise. La stanchezza è tanta, la camminata sotto il sole, nella polvere, con l’impatto emotivo di entrare così “dentro” la povertà, è stata impegnativa, per adulti e bambini. Cedric stesso è impegnativo, con questo suo ruolo a metà tra guida turistica e attivista politico, un fiume in piena di parole, di tesi, di invettive contro il capitalismo.

Prima di riprendere le nostre auto, però, lo ringrazio. Di certo non è riuscito a convincermi su tutte le sue tesi, né a farmi crollare il mito di Mandela. Sono ancora convinto dei suoi meriti, sono convinto che il Sudafrica – nonostante le enormi diseguaglianze – sia un paese infinitamente migliore di 25 anni fa. Ma ha fatto vivere a me, alla mia famiglia, agli altri membri del gruppo, un’esperienza difficilmente dimenticabile. Ci ha regalato un altro punto di vista. Ci ha ancora una volta dimostrato che in Africa è sempre tutto più complicato di come sembra a uno sguardo superficiale. E come anche una visita guidata può diventare un’occasione di crescita e sviluppo. Per chi la offre e per chi la vive.


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