Migranti

Harris, il ragazzo ripartito dalla cucina di Fiore

di Luca Cereda

Il ristorante lecchese, una pizzeria “della legalità” che sorge nei locali confiscati al boss di ‘ndrangheta Franco Coco. Qui il giovane ghanese ha trovato un impiego. «Sono partito come lavapiatti e ora sforno pizze che cercano di unire i sapori delle stagioni del territorio con i saperi che questo locale ha fatto propri: la libertà e la legalità»

Questa è una storia di persone, di incontri, di relazioni. La storia di un ragazzo che ha viaggiato, per necessità e per contingenza, e in quel viaggio ha trovato se stesso. A comporre la sua identità e la sua personalità di oggi, ci sono anche i volti, le esperienze, le fatiche e le gioie che lo hanno accompagnato nel suo personale esodo dall’Africa all’Italia. E c’è anche la storia di Fiore – cucina in libertà, un bene confiscato alla ‘ndrangheta calabrese, che ora a Lecco è un ristorante-pizzeria “della legalità”, dove Harris lavora come lavapiatti e non solo.

Siamo seduti a una grande tavolata di legno liscio e chiaro, al centro della quale spunta, quasi arrivasse dal cuore della terra, una pianta di limone. I suoi rami sono appesantiti da limoni ancora verdi. Dietro la schiena di Harris c’è un muro alto, composto da tanti piccoli mattoni bianchi, tutti uguali e regolari. Questa luogo un tempo era una pizzeria nella quale si progettavano omicidi, sequestri e traffici di droga, ora si accolgono persone, si raccolgono storie. Questa è la scenografia, sulla quale prendono forma le parole di Harris, un ragazzo del ‘96 originario del Ghana. Sbarcato in Italia nel 2014, i suoi ricordi li sente bene, sono tutti lì, sotto la punta delle dita, dentro la sua pelle: raccontarli, mi dice, lo rende nudo, vulnerabile. Ma lui ha scelto comunque di ricordare e di narrare, per riappropriarsene. Sono diventati anche parte integrante di un libro di Daniele Biella, “Con altri occhi”. Incontri nelle scuole dialogando sulle migrazioni, pubblicato da Aeris Cooperativa Sociale di Vimercate.

Harris è un migrante, non un profugo: non è forzato da guerre o dalla fame a scappare di casa. “Lì io stavo bene, avevo la mia famiglia, i miei amici: la mia vita. Sono stato obbligato ad abbandonare tutto perché mi avevano accusato di un crimine che non avevo commesso. Delle persone ci hanno creduto e mi cercavano per avere vendetta”. Nel 2016 gli ispettori della Commissione nazionale italiana per il diritto d’asilo hanno verificato la fondatezza delle motivazioni di Harris e gli hanno conferito protezione da parte del nostro paese.

Lasciato alle spalle il Ghana, Harris percorre sopra un camion il deserto, a soli diciassette anni e senza amici né parenti. Anche lì i rischi sono altissimi: «Siamo stati fermati da un gruppo di predoni che ci hanno chiesto una tassa per il passaggio. Chi non aveva i soldi veniva portato via. Io ho dato loro tutti il denaro che avevo ancora con me». Giunto in Libia Harris viene obbligato dai trafficanti a lavorare per guadagnare abbastanza soldi non solo per mangiare ma anche per pagare il viaggio sul barcone. «I trafficanti non ti lasciano tornare indietro – racconta con lo sguardo pesante Harris – o cambiare meta, vogliono trarre profitto da tutto, compreso dal tuo lavoro e dal ‘biglietto’ per l’imbarcazione che ti porterà verso l’Europa».

«I primi giorni sono stati difficilissimi: avevo finito i soldi e per via della fame ho dovuto dare il mio orologio in cambio di qualcosa da mangiare. Sapevo quanto valesse, ma in quel momento ho messo da parte tutto, anche il fatto che fosse un dono fattomi da uno zio e l’ho barattato per il cibo, anche se era l’ultimo ricordo concreto di casa».

Per alcune settimane, che diventano mesi, Harris lavora come muratore ma nonostante ciò non guadagna abbastanza per sopravvivere e per pagarsi un posto sui barconi che conducono alle spiagge dell’Europa. È proprio quando sta per perdere ogni speranza di poter lasciare la costa africana, accade che il suo titolare decide di pagare ai trafficanti il suo “biglietto” per l’attraversata: versa nelle casse dei trafficanti la cifra minima per salpare.

Il viaggio
Parte nel cuore della notte, al buio, ma nell’oscurità Harris ci rimane per otto, forse nove ore, talmente interminabili da sembrare anni. Il buio è interno, del cuore e della memoria, ma è anche il buio dell’esterno, quello della stiva dove per otto ore sono rimasto stipato insieme a quasi oltre cento persone. Senza luce e soprattutto senz’aria”. Pochissima luce filtra infatti dalle assi sgangherate che fanno muovere lenta ed instabile l’imbarcazione e dalle quali si diffonde un po’ di aria. In quella situazione, impotente, Harris vede spegnersi due persone, un bambino di soli pochi anni e una donna: il buio della stiva, avvertito con la vista, con il tatto e con l’olfatto, invade ora anche il cuore e la memoria. “Non ricordo come ho fatto a salire sul ponte, il buio ce l’avevo nella testa in quel momento. Quando ho smesso di respirare il buio, quando sono uscito all’aria, ricordo i colori dei vestiti degli altri, sbiaditi e sgualciti dal sole, e il bianco del respiro del mare.

È in quel momento che l’immagine della scia della barca che spumeggia, segno tangibile del percorso, del viaggio di Harris, da immagine simbolica diviene elemento plastico, quasi concreto: vedere il varco che la barca incide sulla distesa del mare, assume la dimensione del poter di nuovo avvertire che una possibilità c’è. Significa tornare ad essere, in qualche modo, “padroni del proprio destino, capitani della propria anima”.

«Dopo più di dieci ore di navigazione – continua Harris – vediamo arrivare le navi della marina militare italiana a salvarci: mi è sembrato un miracolo”. Per dell’eccessiva stanchezza di quel momento Harris non ricorda il nome della città siciliana in cui è stato fatto sbarcare. “Ho ancora bene in mente però i rigidi controlli d sicurezza allo sbarco e soprattutto quelli medici, a bordo e a terra. Subito dopo sono stato messo su un pullman insieme ad altri: soltanto una volta in strada ci hanno detto che la nostra destinazione sarebbe stata un centro di prima accoglienza vicino a Monza».

È all’interno dell’hub, in cui Harris passa i suoi primi mesi italiani, che incontra Aeris: dal 2011 infatti questa cooperativa opera attivamente nella gestione dell’accoglienza dei rifugiati e richiedenti asilo sul territorio di Monza, della Brianza. Attraverso la mediazione di Aeris, Harris dal centro di prima accoglienza si trasferisce a vivere ad Osnago, seguendo l’idea dell’accoglienza diffusa che delocalizza in più centri e zone i richiedenti asilo in modo da dare loro serenità e al fine di favorire una maggiore conoscenza ed integrazione con la popolazione locale.

Harris e Fiore, destini incrociati
Dall’aprile del 2017, Harris si è trasferito a Lecco perché lì ha un lavoro: fa il lavapiatti nella cucina del ristorante-pizzeria Fiore – cucina in libertà. Un luogo che condivide con Harris le difficoltà di un viaggio pieno di ostacoli. Il luogo su cui oggi sorge Fiore è stato, fino al 31 agosto 1992, il ristorante Wall Street di proprietà del boss di ‘ndrangheta Franco Coco. Trovato, con al suo interno un bunker in cemento armato, protetto da una porta blindata spessa quasi venti centimetri. Era il posto dove venivano pensati e organizzati sequestri, omicidi e traffici di droga. Il locale viene confiscato ma, per oltre venticinque anni, non viene restituito alla collettività, ai cittadini. Nel 2011 a Lecco viene fondato il Coordinamento di Libera, il quale si interroga su come utilizzare quel bene confiscato. Viene avanzata l’idea di creare una pizzeria della legalità. Quell’idea, quel sogno, si realizza però solo nel maggio del 2015 quando l’Associazione temporanea di scopo, composta dalla cooperativa sociale La Fabbrica di Olinda di Milano (capofila), da Arci e Auser Lecco vincono il bando promosso dal Comune di Lecco che porta alla creazione di Fiore – cucina in libertà. C’è voluto molto tempo e tanto lavoro per ricostruire quei muri: ora la parete che sta alle spalle di Harris mentre mi racconta la sua vicenda è bianca e sotto di essa, come un labirinto di colori e profumi, si dispiega un orto botanico con piante aromatiche. Sono i sapori che Francesca, la direttrice di sala di Fiore, cura insieme allo staff del ristorante; sono i profumi che Giorgio, lo Chef, e Ben, il suo valente aiuto-cuoco, usano in cucina per arricchire di un “sapore buono” i loro piatti. Quella parete, l’intero ristorante Fiore – cucina in libertà, e quei sapori freschi trasmettono anche un sapere dalla forza profonda: una forza che deriva dalla consapevolezza dell’importanza della legalità e della giustizia, entrambi mezzi per raggiungere il fine, la libertà. Una parola in cui anche le storie parallele di Harris e della pizzeria trovano non solo un punto d’incontro, ma uno stimolo a fare sempre meglio.

Harris mi racconta che non vive quest’esperienza lavorativa a Fiore come un punto d’arrivo, anzi, è una sfida a migliorare ogni giorno: «Sono partito come lavapiatti, e ora sforno pizze che cercano di unire i sapori delle stagioni del territorio con i saperi che questo locale ha fatto propri: la libertà e la legalità».

Saperi, sapori e numeri della legalità
Quello di Fiore è un progetto sociale che nei primi due anni ha riscosso buoni risultati frutto dell’unione dei sapori buoni con la memoria impressa in ogni parte del locale. Di ciò che è stato e di quello che vuole essere oggi. «Nel gennaio del 2019 è apparsa una recensione molto positiva sul sito specializzato di alta cucina Identità golose», ci racconta Francesca Perra della cooperativa sociale Olinda e direttore di sala di Fiore. Dopo due anni dall’apertura si può toccare con mano la risposta molto positiva dei cittadini di Lecco e dintorni.

É anche dal continuo raggiungimento del pareggio economico, che si esprime in un ricavo netto medio di 38.154 euro al mese, che si riesce ad intravvedere il significato profondo del fare impresa sociale: non basta fare cose belle con e per le persone, bisogna che siano buone. E i numeri di Fiore – cucina in libertà non corrispondono soltanto ad un pareggio economico, nel secondo anno di attività c’è stato anche un leggero aumento rispetto al primo anno di apertura, dovuto anche ad una presenza media di 1986 clienti al mese con una spesa pro capite di 19,2 euro. “Siamo soddisfatti di poter offrire un prodotto di alta qualità gastronomica a un prezzo molto accessibile”.

Questi ricavi permettono di sostenere i costi dell’esercizio e gli investimenti in formazione intensiva del personale. Infatti è interessante notare che l’incidenza dei costi delle materie prime sul fatturato continua ad attestarsi leggermente sotto il 30 % che indica una gestione efficace del locale. Altrettanto interessante notare che l’incidenza dei costi del personale sul fatturato si attesta attorno al 47% che indica una percentuale relativamente alta dei costi del personale in questo settore. «Questo dato – ci spiega Francesca – riprende la mission principale di Olinda nel creare opportunità lavorative per persone svantaggiate e di strutturare percorsi di inserimento lavorativo e di inclusione sociale. Olinda non intende puntare sul profitto e sulla creazione di un alto margine, ma sulla massima efficienza della gestione del personale che ha come risultato un effetto di inclusione di persone svantaggiate dall’accesso al lavoro. Parliamo infatti di una gestione in grado di combinare un’attività di servizio competitivo con l’attività di inclusione sociale e lavorativa di persone con disagio psichico. Durante il 2018 – conclude Francesca Perra – abbiamo lavorato per la creazione di una squadra stabile e la definizione di contratti di lavoro che sono sempre e tutti regolari».

Attualmente sono assunti undici lavoratori provenienti dal contesto locale, sette di loro con un background migratorio – come Harris – e nove di loro di giovanissima età.

Fiore – cucina in libertà, con il suo progetto, si è posta tre sfide che noi crediamo abbia vinto: la restituzione alla collettività di un bene che prima produceva profitti sporchi; la sfida di dare lavoro, lavoro onesto e pulito dove prima c’era la mano della criminalità organizzata; e la sfida più grande, quella culturale, dell’essere un luogo d’incontro, un luogo dove intessere legami sociali.


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