Dal carcere con l’accusa di essere uno scafista alla comunità per minori che lo ha accolto, dalla scuola al primo lavoro come skipper per persone con disabilità, fino all’amore e al trasferimento in Belgio. Fofana Amara è il ragazzo della Guinea che ha ispirato il film di Matteo Garrone: aveva 15 anni quando gli affidarono una barca con 250 persone a bordo. Lui che nemmeno sapeva nuotare. Dopo il “je suis le capitain” e i titoli di coda, ecco come è proseguita la sua storia. E il ruolo determinante del modello di inclusione che l’ha sostenuto (ma che oggi il Governo snobba)
Il viaggio in mare alla guida di un barcone con 250 persone a bordo, l’accusa di essere uno scafista. L’accoglienza in una comunità di Catania, i due anni di messa alla prova. I due volti della giustizia, quella che si ferma alle apparenze e quella che si interroga su una storia di fuga e ricatti. E poi ancora la scelta del mare per “rinascere” (lui, che non sapeva neanche nuotare) e scoprirsi skipper sì, ma per i disabili. Fino alla decisione, una volta preso il diploma e saldati i conti con la giustizia, di trasferirsi in Belgio. Per amore.
Complessa e con la moltitudine di sfumature che ha una vicenda umana, umanissima, la storia di Fofana Amara, 25 anni, è quella che ha ispirato “Io Capitano” di Matteo Garrone, film che ha vinto il Leone d’argento alla regia e il premio come miglior attore per il protagonista Seydou Sarr alla Mostra del Cinema di Venezia e che rappresenterà l’Italia agli Oscar.
Dopo 4 anni e mezzo in Italia, Fofana ora vive a Liegi, in Belgio. Lavora nella logistica (nel magazzino) per Xiaomi, una multinazionale della tecnologia. Il suo percorso di regolarizzazione non si è ancora concluso, per questo non è stato presente alla mostra del Cinema di Venezia (si è collegato da remoto). Ma per la cerimonia degli Oscar si apre una speranza. «Per marzo 2024, forse ce la faccio», ci dice, dopo averci accolto in video con un bel sorriso.
Quello di Matteo deve essere un film per tutti. Anche per gli africani: molti non sanno come funzionano questi viaggi e quello che succede in Libia
Fofana Amara
Il benvenuto del territorio
Ebbene, Oscar a parte, la sua storia dice un sacco di cose, soprattutto dopo il suo arrivo in Italia, quando calano i titoli di coda. Una su tutte? «Quello che ha funzionato con Fofana, e che funziona anche con altri ragazzi, è l’abbraccio della comunità territoriale, di cui fa parte sì la struttura di accoglienza, ma anche il tribunale, i servizi sociali, il volontariato, la scuola, i professori, i coordinatori di classe». A parlare è Piero Mangano, 54 anni, originario di Catania: si occupa di accoglienza di minori da 25 anni. Operatore giuridico pedagogico, è responsabile dell’area residenziale della cooperativa sociale Prospettiva, proprio quella che si è presa cura di Fofana, un mese dopo il suo arrivo in Italia.
Offerta di opportunità
«Parliamo di una rete», prosegue, «in grado di costruire un clima positivo intorno al ragazzo: tutti hanno contribuito in un’ottica di offerta di opportunità, di vicinanza e di attenzione. Penso alle realtà locali del Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza, al supporto di Save the Children (soprattutto per l’aspetto legato alla lingua), di Unicef (per la parte della tutela legale), del Centro Astalli (per il disbrigo delle pratiche amministrative)».
Chi organizza veramente il traffico esseri umani
Non solo Fofana. «Sono tante le storie di ragazzi che abbiamo accolto e che hanno avuto un lieto fine. Anche quelli con procedimenti penali alle spalle, anche quelli accusati di essere scafisti» ci tiene a precisare Mangano. «I veri scafisti sono quelli che organizzano le partenze, non quelli che guidano i barconi, perlopiù ragazzi», rimarca. «Tutti i ragazzi ci hanno raccontato questa cosa. Fofana non è un caso, è una modalità: si individuano quelle persone che non hanno la possibilità economica di pagarsi il viaggio, gli spiegano alla meglio come si guida un barcone e poi le lasciano a loro stesse».
Tutti i ragazzi ci hanno raccontato questa cosa. Fofana non è un caso, è una modalità: si individuano le persone che non hanno la possibilità economica di pagarsi il viaggio, gli spiegano alla meglio come si guida un barcone e poi le lasciano a loro stesse
Piero Mangano, cooperativa sociale Prospettiva
Di quei momenti Fofana ricorda soprattutto la paura e l’incertezza: la notte della partenza, l’arrivo in Italia all’alba. «Ricordo che sulla barca c’era una donna incinta, ricordo che non sapevamo se e quando saremmo arrivati».
Erano felici di aver toccato terra, incolumi
Accoglienza? Per Piero, «sì, è il termine giusto». Inizia proprio da qui, dall’uso delle parole adeguate, il racconto della storia di Fofana Amara. Del viaggio di Fofana, che aveva 15 anni quando si sono svolti i fatti, si è detto moltissimo: la barca, il mare, la sua età, l’approdo in Italia nel 2014. E dopo? Fofana uno scafista? «Non è assolutamente così: lui si è trovato costretto a questo viaggio e a mettersi a guidare un’imbarcazione con 250 persone a bordo». Dunque, sulle coste siciliane, come raccontano gli ultimi passaggi del film di Garrone, si presenta alle forze dell’ordine con le parole che hanno dato il titolo alla pellicola. Je suis le capitaine. Quasi un’affermazione di orgoglio, che gli costerà cara. «Erano tutti felici di aver toccato terra e che nessuno si fosse fatto male, ma da quel momento, per la legge italiana, Fofana è uno scafista ed è accusato di favoreggiamento all’immigrazione clandestina», ricorda sempre Mangano.
Siamo al 21 luglio 2014. Je suis le capitaine, je suis le capitaine: immaginatele in bocca ad un bambino di 15 anni, dopo una traversata. «No, non era certo una provocazione», dice Amara, «ricordo che sulla barca c’era un bambino – i piccoli erano 20, forse anche 25 – a cui avevo promesso che saremmo arrivati in Italia. Per tutto il viaggio ho cercato di rassicurarlo».
Quando ho visto la nave dei militari ero molto contento. Avevo salvato tutte quelle persone, non sapevo cosa dire, né cosa fare e mi sono messo a gridare
Fofana Amara
Dal mare al carcere degli adulti
Fofana viene considerato maggiorenne. Un equivoco nato e dall’assenza di documenti («come la maggior parte di quelli che arrivano sulle nostre coste», annota Piero) e dal fatto che, durante la navigazione, «per rassicurare chi era a bordo», aveva omesso di avere appena 15 anni: per l’esattezza, anzi, «Fofana all’epoca non sapeva neanche nuotare». Il combinato disposto di questi due elementi porta il ragazzo dritto in carcere. Di quelli per gli adulti. «Viene portato subito nel carcere di Cavadonna, in provincia di Siracusa», dove trascorre diverse settimane. Alla fine delle quali si scioglie l’equivoco: Fofana è un bambino, è un minore. «Viene revocata la custodia cautelare in carcere». Ma, anziché attivare i servizi sociali o una qualche azione di tutela, viene accompagnato al cancello e lasciato là, come un adulto. «Si era capito che era stato fatto un errore e che la competenza doveva passare al tribunale per i minorenni, ma è stato abbandonato così, in piena campagna, senza sapere che fare, dove andare e senza che lui conoscesse la lingua».
Da Siracusa a Catania
La solidarietà di un ambulante tunisino ad Augusta ha permesso a Fofana di arrivare a Catania: un biglietto e un contatto gli hanno fatto ritrovare la strada. Sarà poi la comunità senegalese della città etnea ad accompagnarlo da un’avvocata, la stessa che poi diventerà la sua tutrice legale. «Viene presentato subito il caso ai servizi sociali e quindi alla procura dei minorenni: perché, lo ripeto, era un minore straniero non accompagnato sul territorio. Quindi, a prescindere dalla sua vicenda giudiziaria, viene inserito con un provvedimento d’urgenza in comunità». La comunità è quella dove lavora Piero Mangano.
Spaesato ma consapevole
Confuso, disorientato, impaurito, dopo un mese tra carcere e strada, Fofana entra in Prospettiva ad agosto 2014. «La comunità è una struttura per 10 ragazzi e si trova all’interno di un centro di aggregazione giovanile, con spazi comuni, laboratori di danza, di teatro, musica, ceramica, con un campo di pallavolo». Ad accogliere Fofana è stato proprio Piero. «Sì, l’ho accolto io. Nonostante l’avvocata lo avesse rassicurato che una comunità non era un carcere, non era certo sereno. Aveva capito che aver guidato un barcone lo aveva messo nei guai».
Ecco, esattamente da questo momento, per Fofana inizia un altro viaggio che lo porterà anche a riscoprire il mare. Quella stessa distesa che, disperato, lo aveva portato in Italia. «Quando si entra qui, non importa cosa hai fatto: inizia una nuova storia», dice Piero.
Quando sono arrivato nella struttura di Piero avevo molta paura. Non sapevo cosa fosse una comunità e non parlavo l’italiano. Poi mi sono reso conto che erano ospitati insieme italiani e africani, è stata una cosa buona per me
Fofana Amara
Prima lo abbracciamo
Grazie anche all’aiuto di Abdul, il mediatore culturale di Prospettiva, piano piano la storia di Fofana, che diventa per tutti Fof, emerge in tutti i particolari. La prima difficoltà è legata alla lingua, spiega Mangano. «Trovarmi in un posto che aveva insieme italiani e stranieri è stata per me una cosa buona. Dopo tre mesi ho imparato piano piano a parlare l’italiano», precisa il ventenne. «È stato importante per fare amicizia. Così siamo diventati una famiglia», aggiunge.
«Con i ragazzi come Fofana», mette in evidenza Mangano, «cerchiamo subito di instaurare un contatto, lo abbracciamo, gli diamo il benvenuto, gli facciamo capire che siamo contenti che ci siano e che faremo di tutto perché stiano bene. Poi li portiamo a visitare la comunità, lo spazio in cui vivranno la loro quotidianità: tutto il lavoro che facciamo in comunità», precisa, «è teso a dare un senso alla quotidianità».
Grazie al sostegno degli psicologi, Fofana si è lanciato nella prima fase del suo percorso. «Quella in cui il ragazzo deve impegnarsi a gestire il tempo in maniera diversa rispetto a come lo faceva prima». Poi «abbiamo iniziato a parlare con lui della sua storia e a capire le motivazioni di certe scelte».
Per gli educatori i ragazzi come me sono figli. Mi sono sentito a casa mia
Fofana Amara
Un nuovo sogno e la scuola
Passo dopo passo, in comunità il giovane ha iniziato a ricostruire il proprio sogno. «Tutti i ragazzi che arrivano nelle comunità hanno un sogno, spesso inespresso, e hanno difficoltà a proiettarsi nel futuro»: non basta insomma accogliere, ma è necessario anche «ricostruire un’identità che poi permetterà a ciascun ragazzo di essere forte una volta uscito dalla comunità e di intraprendere un percorso autonomo». Nel dettaglio il primo passo che Piero e gli altri operatori hanno compiuto per Fofana è andato nella direzione della lingua, «dell’alfabetizzazione. Viene iscritto a scuola, al centro di istruzione per adulti, e riesce a prendere la terza media». All’inizio, ricorda il giovane, «non è stato facile entrare in una scuola con 400 persone e due stranieri. Nessuno era abituato ad una cultura ad lingua diversa. I professori hanno fatto un grande lavoro per far capire come ci si dovesse comportare. Dal secondo anno in è stato più facile. Poi ero molto bravo con i compiti e questo mi ha aiutato».
Il procedimento penale e la messa alla prova
Nel frattempo la giustizia, non quella amministrativa e civile che aveva portato Fofana in comunità, ma quella penale, che lo aveva inquadrato come scafista all’inizio della storia, era arrivata ad un punto: Fofana doveva essere processato per favoreggiamento all’immigrazione clandestina. «Il ragazzo racconta in aula come sono andate le cose». A quel punto i servizi sociali hanno presentato al giudice la richiesta di “messa alla prova”, la possibilità cioè di una sospensione del procedimento penale, a certe condizioni: scuola, avviare un percorso riparativo e di rielaborazione del reato. «Vista la sua vicenda e vista la situazione in cui si è ritrovato, il giudice gli dà questa possibilità. Una “messa alla prova” molto lunga, 2 anni, perché commisurata al reato per cui era imputato». Il suo esito positivo però estingue il reato.
Direzione mare
I due anni di messa alla prova iniziano per Fofana con un primo passo: l’iscrizione all’Istituto Nautico. In questo periodo, ricorda Mangano, la sua attenzione era dedicata al buon esito della sua situazione penale. «Certo, voleva essere rassicurato che tutto andasse per il verso giusto». Intorno a lui si era però creato un clima di fiducia. Dalla comunità che lo aveva accolto al tribunale per i minorenni, tutti ormai conoscevano la sua storia. Piero Mangano racconta degli anni di Fofana all’Istituto Nautico in termini di «notevole applicazione», di «professori entusiasti, che vedono in lui una grande voglia di imparare e di superare i suoi limiti linguistici: parla italiano, ma non in modo fluido» e di «integrazione con i compagni di classe».
La crisi e la voglia di andare via
No, il percorso compiuto da Fofana non è stato lineare, né privo di ripensamenti o di dubbi. «Fofana», racconta Mangano, «non voleva stare in Italia. Il suo più grande desiderio era raggiungere le coste del Canada o anche una regione europea francofona». Restare bloccato in Italia da un procedimento penale prima e dalla messa alla prova poi, «non è stato facile da accettare, soprattutto nella fase iniziale della sua permanenza». E c’è stato anche «un momento in cui voleva fuggire». Irrequieto e angosciato, «si è aperto con noi e ci ha chiesto cosa fare».
Ecco, a quel punto le parole di Piero e degli altri operatori hanno veramente evitato un disastro. «Nel momento in cui andrai via, gli dicevamo, ti resterà appeso questo procedimento penale e sarai condannato». Sono stati insomma due anni difficili, fatti di restrizioni, di sveglia all’alba, di compiti, di impegno con il volontariato. «Le mie giornate erano molto lunghe, spesso tornavo la sera», ricorda Fofana.
Resto, ma a modo mio
Fofana ha scelto di non fuggire, di «impegnarsi in un percorso di integrazione italiano» e contemporaneamente ha deciso che sarebbe stato il mare il sigillo di questa volontà. «Sentivamo fortissimo il suo legame con il mare. È come se l’esperienza della traversata non lo avesse mai abbandonato», ricorda Piero. Proprio il mare, il non saper nuotare (cosa che poi ha imparato grazie agli operatori di Catania), e quanto questo fosse stato rischioso durante il viaggio dalla Libia, erano temi ricorrenti nelle sue conversazioni. Una scelta che si è concretizzata prima iscrivendosi al Nautico e poi concentrando la cosiddetta attività ripartiva presso la Lega Navale Italiana, in particolare dando sostegno alle persone con disabilità. «Vuol dire aiutare lo skipper nelle manovre, ma soprattutto aiutare le persone disabili a vivere quel momento come un momento di gioia», riflette Fofana. Il rapporto con le persone con disabilità ha aiutato tantissimo Fofana: «Mi hanno dato una speranza».
18 anni, la fine della messa alla prova, il lavoro e l’amore
Anche per il giovane originario della Guinea arriva la maggiore età, gli resta un anno di scuola e contemporaneamente si esauriscono (con esito positivo) anche i due anni di messa alla prova. «Maggiorenne, potrebbe lasciare la comunità, ma preferisce restare». Siamo nel 2017, anno in cui stringe un rapporto sentimentale e in cui inizia anche a lavorare alla Lega Navale Italiana: con l’attivazione di un tirocinio formativo, inizia anche a guadagnare. «Fofana è diventato una risorsa». A cambiare ancora una volta le carte in tavola è la partenza in Belgio della persona a cui si era legato. «Finita la scuola, finito il tirocinio formativo, quando aveva circa 20 anni, decide di partire anche lui per il Belgio. Siamo nel 2018». Con una posizione regolarizzata, con il permesso di soggiorno ottenuto anche grazie al tirocinio, «può spostarsi liberamente e avviare un nuovo percorso di regolarizzazione in quel paese. Che al momento non è ancora concluso».
In apertura Fofana Amara, foto per gentile concessione dell’autore. Nel testo le immagini della Comunità Prospettiva sono per gentile concessione di Piero Mangano
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