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40 anni, istruito e informato. È il senzatetto

Una ricerca sugli homeless di Milano

di Redazione

Nel capoluogo lombardo sono stati contati 4mila adulti senza casa. Di questi 408 vivono in strada. Non era mai stato realizzato un censimento così particolareggiato. E le sorprese non mancano Dopo la recente bolla del mercato immobiliare, che ha colpito progressivamente a macchia di leopardo i Paesi su entrambe le sponde dell’oceano, il dibattito e l’attenzione sul tema della casa si sono fatti sempre più caldi. L’enfasi, tuttavia, è quasi sempre su chi già possiede una casa o, al più, è in procinto di acquistarla. Raramente, e solo nei mesi invernali, si parla di coloro che la casa non l’hanno: i senzatetto.
Sembra esserci un consenso unanime sul fatto che il possesso della casa debba essere un diritto acquisito in tutte le società sviluppate che davvero possano essere definite tali. Al contrario, proprio laddove la ricchezza è maggiore, questo diritto primario, che è alla base del vivere sociale, è spesso disatteso. In Italia, la quota di popolazione che possiede una casa di proprietà è tra le più alte del mondo, oltre il 73%: un dato che sembra far passare in secondo piano il problema dell’assenza di una casa tout court. In ambito accademico, a non accendere neppure il dibattito concorre il fatto che i dati affidabili sul fenomeno sono estremamente limitati a livello internazionale, e pressoché nulli in Italia.

La dimensione del fenomeno
Il primo censimento completo dei senzatetto in Italia è stato effettuato il 14 gennaio 2008 nel comune di Milano, grazie alla borsa di studio in ricordo di Riccardo Faini promossa dall’Ere. In linea con la definizione internazionale, il censimento ha riguardato tutti coloro che nella notte di riferimento dormivano in luoghi non preposti all’abitazione. La rilevazione ha fotografato una popolazione di circa 4mila adulti privi di una casa: 408 erano in strada, 1.152 nei dormitori e circa 2.300 nelle baraccopoli, campi nomadi o edifici dismessi. La distribuzione spaziale della popolazione mostra una maggior concentrazione nel centro città ma una distribuzione regolare su tutto il territorio cittadino.
La sola quantificazione del fenomeno è già di per sé un risultato interessante. L’unico dato esistente in Italia, infatti, risaliva al 2001 e stimava una popolazione di 17mila persone sull’intero territorio nazionale, pari quindi allo 0,03% della popolazione nazionale. L’assenza di dimora sembrava un fenomeno estremamente marginale e ben lontano dalle dimensioni assunte negli Stati Uniti, dove la quota di senzatetto sul totale della popolazione si attesta nell’ordine dello 0,2 – 0,3%.
Chi sono i senzatetto?
Il secondo risultato interessante è quello connesso alle caratteristiche della popolazione, emerse dall’indagine condotta su un campione casuale di circa mille individui. I tratti distintivi sono, infatti, ben diversi da quelli dell’iconografia tradizionale del clochard come di un individuo che rifiuta il mondo e le sue convenzioni ed è pertanto completamente avulso dal tessuto dalle reti sociali.
La popolazione è prevalentemente composta da uomini nella parte centrale della vita. L’età media è 40 anni, ma ci sono differenze significative tra strada e dormitori rispetto alle aree dismesse, la cui popolazione è formata in egual misura da uomini e donne relativamente più giovani (30,7 anni).
Le persone relativamente più anziane tendono a preferire la strada ai dormitori. E ciò porta a riflettere su un aspetto non neutrale rispetto alle politiche di reinserimento. Se infatti, da un lato, la vita e la sopravvivenza in strada è più difficoltosa, una simile scelta da parte delle persone relativamente più anziane sembra suggerire che all’avanzare dell’età si è relativamente meno propensi ad accettare il grado di socialità e il rispetto di regole connesse alla residenza nei centri di accoglienza notturna.
Lo status di street homeless appare più cronico rispetto a quello di chi dorme nei centri di accoglienza notturna. In media, gli intervistati sono in strada in modo continuativo da 4/5 anni, mentre nei dormitori da 2/3 anni. Preoccupante è il livello di cronicità che si riscontra nelle aree dismesse, dove la permanenza continuata supera abbondantemente gli 8 anni. La strada e le baraccopoli, perciò, rappresentano la forma più estrema di homelessness: dopo un periodo più o meno lungo di permanenza le difficoltà di reinserimento nel tessuto sociale risultano maggiori. La composizione etnica è variegata per effetto della netta maggioranza di stranieri (67%) concentrati soprattutto nelle baraccopoli, mentre la quota scende al 60% nei dormitori e al 44 % in strada. Le nazionalità di origine sono in linea con la popolazione straniera presente sul territorio nazionale e, per lo più, si tratta di immigrati di nuova generazione arrivati dopo il 2000.

Che fare?
Dall’indagine, emerge come l’homelessness non vada di pari passo con la hopelessness di reinserimento nel tessuto sociale. La popolazione è estremamente variegata, ma ha caratteristiche demografiche, di capitale umano, di partecipazione al mercato del lavoro che sembrano suggerire la possibilità (e l’auspicabilità) del disegno di politiche di reinserimento piuttosto che di mera assistenza. Le politiche volte ad alleviare o attenuare il fenomeno, come gli interventi di emergenza e temporanei, sono sicuramente importanti, ma rischiano di accelerare fenomeni di cronicizzazione creando dipendenza: tanto è facile entrare nei circuiti di assistenza, quanto è difficile uscirne. Viceversa, politiche di inclusione sociale che passino in primis dal mercato del lavoro e da quello immobiliare, come interventi di supporto o di housing sociale, possono generare interessanti esternalità positive sulla società nel suo complesso e agevolare circoli virtuosi nel gruppo dei pari.

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