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Cooperazione & Relazioni internazionali

Tre adozioni su 100 vanno in crisi

È stata presentata a Firenze la prima indagine nazionale sulle crisi adottive: percentualmente poche, ma molto dolorose. I casi sono 926 su 29.743 adozioni internazionali concluse tra il 2003 e il 2016 e 140 casi su 9.720 adozioni nazionali. «I fattori di rischio sono quelli tipici degli special needs, che rappresentano il 60-70% delle attuali adozioni», dice Vincenzo Starita, vicepresidente della Commissione Adozioni Internazionali. «Nel breve termine le crisi aumenteranno, se non si realizza una strategia adeguata e non si prendono in carico le famiglie»

di Sara De Carli

Ogni 100 adozioni internazionali, tre vanno in crisi: una crisi comunque di un certo peso, che comporta un intervento del Tribunale per i Minorenni. È quanto emerge dalla prima indagine conoscitiva realizzata dalla Commissione Adozioni Internazionali e dall’Istituto degli Innocenti in collaborazione con i Tribunali per i Minorenni d’Italia, presentata oggi a Firenze. L’indagine fa riferimento alle misure prese dai Tribunali fra il 2014 e il 2018, riguardanti famiglie che hanno adottato tra il 2003 e il 2016: è la prima ricerca in Italia ad avere un perimetro così esteso, con i dati di 24 Tribunali per i Minorenni su 29. L’obiettivo era conoscere le dimensioni reali di un fenomeno che la percezione di operatori e opinione pubblica vedeva in crescita, per verificarne le reali dimensioni oltre che per indagare fattori di rischio e di protezione, così da poter definire migliori percorsi di intervento e prevenzione. Ne parliamo con Vincenzo Starita, vicepresidente della Cai.

Il dato che emerge dalla ricerca è che il 3,1% delle adozioni internazionali va in crisi: in linea con quello che vi aspettavate, di più, di meno?

Non dimentichiamo di evidenziare che la grandissima parte delle adozioni funzionano. Il perimetro che abbiamo scelto, per poter realizzare questa indagine su una materia tanto magmatica, è limitato alle situazioni di crisi che sono giurisdizionalizzate, ovvero che sono arrivate dinanzi al Tribunale per i Minorenni, che è intervenuto in modalità diverse come poi vedremo. C’è quindi tutta una parte di crisi – anche importanti e impattanti sul vissuto delle famiglie – che si sono risolte con dei sostegni professionali anche importanti, che però sfuggono a questa indagine, per il filtro che abbiamo scelto. Gli studi internazionali dicono che se volessimo unire questo “sommerso” i numeri arrivano al doppio se non triplo, tra le 7 e le 9 adozioni ogni 100. Rispetto al valore assoluto sono poche, il problema è che sono situazioni delicatissime, in cui c’è il rischio di arrivare al vero e proprio fallimento dell’adozione, con un procedimento ablativo della responsabilità genitoriale e quindi, per il minore, al trauma del doppio abbandono. I numeri di per sé non sono molto dissimili da quelli che avevamo già in letteratura, basati su indagini territorialmente più circoscritte. La novità e l’importanza di questo lavoro non sta quindi tanto nel dato a cui si è arrivati.

E in cosa stanno allora la novità e l’importanza di questo lavoro di ricerca?

La ricerca segna una rinnovata, stretta collaborazione tra la CAI e i Tribunali per i Minorenni, i due soggetti istituzionali che hanno un ruolo fondamentale nell’adozione internazionale. È una collaborazione che mancava da tempo, in maniera così stretta, e questo ha avuto ripercussioni significative anche sulla cultura dell’adozione. L’indagine è nata con la vicepresidente Laera, che subito dopo aver risolto le problematiche più urgenti del sistema adozioni, ha voluto attenzionare proprio questo aspetto essenziale delle crisi adottive, per studiare insieme le migliori soluzioni possibili per intervenire con una presa in carico efficace, ma anche per individuare fattori di rischio, così da intercettare il disagio prima che si manifestasse in forma più compiuta e violenta. Oggi noi oggi, con questa indagine, andiamo a coprire un’esigenza molto avvertita anche a livello internazionale: la Commissione speciale dell’Aja nel luglio 2021, nelle sue raccomandazioni finali, ha esplicitamente stigmatizzato la carenza di dati statistici sulle crisi adottive e chiesto alle autorità centrali di lavorare di più sulla raccolta di dati. Siamo la prima autorità centrale a rispondere a questa raccomandazione. In secondo luogo abbiamo voluto rispondere a un’esigenza informativa che il paese ha da sempre, perché abbiamo avuto sì ricerche precedenti, anche brillanti, sul fenomeno, ma sempre parziali: o perché si è scelto come perimetro della ricerca il momento in cui la crisi è irreversibile, il fallimento, o perché – pur con una definizione più ampia – la ricerca era circoscritta a livello regionale, per esempio in Piemonte, Toscana, Lazio. Non esisteva ad oggi una ricerca su un territorio così ampio da coprire di fatto l’intero territorio nazionale, con 24 Tribunali per i Minorenni su 29 che hanno partecipato.

Come è stato definito il perimetro della crisi?

Ovviamente c’era un’esigenza di estrarre dati omogenei, in modo che fossero comparabile in futuro: una volta disegnato lo strumento, questa indagine può essere ripetuta periodicamente, così da monitorare il fenomeno. È stata identificata come “crisi adottiva” ogni situazione di difficoltà che ha portato una famiglia adottiva ad entrare nelle aule del Tribunale per i Minorenni, con livelli di gravità diversi: comunque situazioni che hanno reso necessario l’intervento del Tribunale per i Minorenni e l’emanazione di un procedimento. Sono stati individuati tre livelli di gravità: crisi gravi sono quelle che si concludono con un provvedimento di decadenza della responsabilità genitoriale o con una nuova adottabilità del minore. Crisi medie sono tutte le situazioni in cui il TM dispone una limitazione della responsabilità genitoriale, ma non ablativi della stessa: in queste situazioni per esempio si verifica spesso un allontanamento del minore dalla famiglia, ma questi allontanamenti sono temporanei e portano talvolta – vedremo poi quanto – al rientro in famiglia. Infine, crisi lievi sono quelle in cui il TM con un provvedimento prescrive attività sostegno di vario tipo, dalla psicoterapia all’implementazione delle capacità genitoriali, a provvedimenti di natura amministrativa…

Fra le situazioni di crisi che avete rilevato, quante sono gravi?

Secondo, queste definizioni, il 68,4% sono crisi di media gravità, il 18,1% lievi e il 13,5% di alta gravità. Tra quelle che hanno comportato un allontanamento, per la metà – o qualcosa in più – si traduce in un non ritorno del minore, per esempio perché resta in comunità fino alla maggiore età o oltre. Quindi il numero delle crisi di media gravità che di fatto si concludono con un non ritorno in famiglia è comunque molto significativo.

L’indagine quindi si basa su un filtro per estrarre e analizzare, fra i provvedimenti presi dai TM, quelli che riguardano le famiglie adottive, è così?

Questo è stato possibile grazie alla collaborazione straordinaria del giudice Luca Villa, presidente del Tribunale per i Minorenni di Genova, che ha elaborato una query per cui possiamo interrogare il sistema Sigma, in uso nei TM, per cui inserendo i nomi delle coppie che hanno fatto un’adozione nazionale o intenzionale si vede se e quando queste sono state poi coinvolte in procedimenti volti a sostenere il nucleo. Questo è il primo step. Lo step successivo è stato quello, una volta estratti i fascicoli, di entrare nelle storie e ricostruire le vicende: questo lavoro preziosissimo è stato possibile grazie ai giudici onorari dei TM, che partendo dai fascicoli hanno risposto a un questionario, così da – diciamo così – trasformare le storie in dati statisticamente leggibili. La straordinarietà di questa indagine, ripeto, non è nei risultati: l’elemento innovativo è aver individuato un meccanismo per cui almeno il fenomeno delle crisi più gravi, quelle che arrivano in tribunale, possa essere monitorato nel tempo. Ovviamente il meccanismo può essere migliorato, per esempio penso che in futuro si debba prevede anche l’ascolto di chi ha vissuto la crisi: il minore, i genitori, l’intero nucleo, i professionisti coinvolti. Dalla ricerca emerge chiaramente che per tanti aspetti importanti in molti fascicoli non si trovano le risposte, significa che la “storia giudiziaria” della crisi non ha toccato tutti gli aspetti che potevano essere toccati. Un terzo aspetto che emerge, ed è un aspetto che è stato approfondito in particolare da Leonardo Luzzatto, già coordinatore del progetto ella Regione Lazio sul post adozione e crisi adottive, è il fatto che nella presa in carico si attenziona e quasi esclusivamente il sostegno sul minore, si chiede molto al minore di cambiare per superare la crisi e lo si chiede troppo poco ai genitori. Infine, manca perché era complicato farlo, la possibilità di “collocare” le adozioni entrate in crisi nel primo o nel secondo periodo delle adozioni italiane, quelle realizzate fra il 2003 e il 2010 o quelle del periodo successivo. Sappiamo bene che in quei due archi temporali, una segnata dalla crescita e una dalla crisi delle adozioni, le adozioni hanno avuto caratteristiche molto diverse.

Finora abbiamo parlato di adozioni internazionali: la ricerca ha questo perimetro?

La ricerca è su entrambe le adozioni, ma le risposte effettivamente sono in larga parte relative all’adozione internazionale, perché come CAI abbiamo messo a disposizione i nominativi. Se per le adozioni internazionali le crisi riguardano il 3,1% delle adozioni, per le nazionali il dato è più basso, intorno all’1,4% ma va affinato. Diciamo che i dati attendibili oggi sono quelli che riguardano le adozioni internazionali. Questo non significa che in futuro non sarà possibile individuare tutti i nominativi di chi ha fatto un’adozione nazionale e fare la query. Noi abbiamo lavorato in prospettiva unitaria.

Quali sono i fattori di rischio che sono stati individuati?

Nulla di particolarmente diverso da quello che c’è in letteratura. Un fattore è l’età di ingresso in famiglia: in media i minori adottati che entrano in crisi sono entrati in famiglia a 7,9 anni. Parliamo di un arco temporale in cui l’età media dei bambini adottati in Italia era di 5,7 anni. Alla gravità della crisi è collegato un aumento dell’età dell’ingresso in famiglia: nelle crisi gravi l’età media di ingresso in famiglia dei bambini è di 8,6 anni. Un secondo dato riguarda il lasso temporale che intercorre tra l’entrata del minore in famiglia e il primo procedimento noto, segno evidente di una crisi in atto: mediamente passano circa 6,2 anni. Però anche qui, quando la crisi è di gravitò alta il tempo si riduce a 3,3 anni, quasi la metà.

Qual è l’età media dei minori quando scoppia la crisi? L’adolescenza?

Al primo procedimento i minori hanno in media 14,1 anni, siamo nel pieno dell’adolescenza. Anche qui però l’età media si abbassa quanto più grave è la crisi: nelle crisi gravi è circa 12 anni. Un altro dato significativo emerso, conforme ad alcuni studi, è che tra i fattori rischio ci sono la presenza di più minori adottati o comunque di più minori nel nucleo. Per le crisi che portano ad abbandono questo fattore è presente nel 55% delle situazioni, è una percentuale molto alta, soprattutto se parametrata al numero ridotto di minori che entrano nel nostro Paese con dei fratelli. Questo ci dice senza dubbio che un’attenzione maggiore va data alle dinamiche relazionali che i minori vivono rispetto agli altri fratelli che convivono nel nucelo, per evitare che il disagio aumenti. Ci tengo a sottolineare che i fattori di rischio sono quelli tipici dei minori con special needs, che oggi rappresentano una quota assolutamente rilevante delle adozioni internazionali: l’anno scorso il 62%, ma abbiamo avuto anche anni in cui sono stati il 70%.

Il fatto che più del 60% delle nostre adozioni riguardi minori con special needs, ci deve quindi portare ad attenderci una futura crescita delle crisi adottive?

Ci fa immaginare che le crisi adottive inevitabilmente cresceranno se non si realizza una strategia adeguata e se non si prendono in carico le famiglie. Bisogna accendere una lampadina, aprire una discussione ampia sulle azioni che dobbiamo porre in essere. Per esempio, a che serve un post adozione che dura un anno se abbiamo visto che la crisi scoppia ben dopo? Le famiglie devono essere seguite per un arco temporale ben più ampio. Non dobbiamo immaginare uno “stigma” della famiglia adottiva, immaginando una famiglia in perenne presa in carico, ma dei servizi di post adozione di prossimità, che periodicamente si fanno vivi, facendo sentire alle coppie che sono lì per loro e che le difficoltà devono essere immediatamente affrontate. Serve creare servizi più visibili, con equipe che abbiano una competenza specifica, ma anche fare una grossa campagna di informazione che porti le famiglie ad avere consapevolezza del ruolo e dell’importanza di questi servizi. Un altro tema è quello di capire cosa dobbiamo fare per ridurre il numero di minori che arrivano alla crisi e qui uno dei fattori predittivi emersi chiaramente fa riferimento al fatto che spesso si sa poco del vissuto del minore: le informazioni che provengono dalle autorità dei paesi di origine sono scarne, anche quelle sanitarie e comporta che la famiglia dia una disponibilità che poi non corrisponde alla situazione reale, il suo consenso all’abbinamento spesso è non così consapevole e preparato rispetto all’adozioni che avrà.

Le coppie dovranno mettere in conto che l’adozione, se sarà, sarà quasi inevitabilmente di un minore con special needs?

Oggi abbiamo un numero enorme di coppie disponibili e sempre meno minori in stato di adottabilità e fra questi una percentuale significativa ha uno special needs. Le coppie sono portate a mutare la propria disponibilità nel corso della procedura adottiva, a volte anche con una modifica del decreto di idoneità. Ma questa modifica della propria disponibilità è preparata da adeguata preparazione della coppia all’adozione che avrà? Le coppie che danno disponibilità ad accogliere minori grandicelli hanno consapevolezza della disponibilità ad accogliere il suo vissuto, che questo comporta? Le coppie sono adeguatamente preparate? Le coppie sono preparate al fatto che potrà essere loro richiesto di mantenere relazioni significative con figure importanti per il minore, nel suo paese di origine? C’è bisogno di chiarezza, per affrontare problematiche di questo tipo. Da un lato quindi chiediamo alle autorità centrali di fornirci delle storie il più dettagliate possibile e dall’altro una maggiore preparazione delle coppie. Abbiamo la necessità di lavorare in questa duplice direzione. La verità è che l’adozione internazionale sarà sempre più di nicchia, con coppie straordinarie disponibili ad affrontare percorsi difficili, a dare una famiglia a ragazzi complicati: serve una strategia in cui le coppie che danno questa disponibilità devono essere supportate da tutti i punti di vista, anche economico. È importante la collaborazione con i TM perché abbiamo il dovere di comprendere che non è più possibile fare un percorso formativo “generico”: la coppia che si approccia ad adottare all’estero deve essere consapevole che la sua adozione sarà nel 60-70% dei casi uno special needs. È impossibile formalizzare una disponibilità per bambini 0-3 anni, sani, senza patologie, è un danno al sistema. Questo ci porta ad un’ulteriore riflessione: seguire tutti questi fenomeni richiede una preparazione estremamente specifica, la riforma della giustizia minorile da questo punto di vista è scellerata perché la riduzione del numero e del ruolo dei giudici onorari porterà all’impossibilità di seguire compiutamente questi fenomeni.

In base agli esiti di questa ricerca, quale sostegno e quali servizi di presa in carico si devono immaginare?

Ho già avuto un confronto con la ministra Roccella, per presentarle la necessità di sostenere in ogni modo le famiglie adottive. È un investimento vantaggioso: quanto costa al sistema una crisi adottiva? Ricerche di questo tipo servono anche a questo.

Foto Unsplash


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