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Economia & Impresa sociale 

Addio a Giuseppe Benanti, imprenditore illuminato

Scomparso pochi giorni fa un grande imprenditore, capace con passione e perfezionismo di gestire e creare cose che prima non c'erano in un territorio difficile come quello di Catania: una grande azienda farmaceutica, un'azienda vinicola, un ristorante gourmet di alto livello. In una realtà poco sensibile al dibattito sulla responsabilità sociale dell’impresa, Benanti aveva realizzato due strutture gioiello per i 325 dipendenti dell'epoca, fra cui tante donne e mamme: una scuola per l’infanzia e una palestra, dove modelli educativi e attrezzature ginniche gareggiavano in modernità

di Roberto Copello

Sarà per il sangue greco che hanno nelle vene da quando coloni calcidesi fondarono l’antica Katane. O sarà per la rabdomantica sensibilità che fa percepire il magma ribollente sotto i loro piedi. Fatto è che per i catanesi autentici la terra è la Grande Madre da cui proveniamo e verso cui dobbiamo tornare. La terra come territorio d’origine, una calamita di basalto che attrae fatalmente verso casa i catanesi emigrati, in ogni giornata trascorsa fra nebbie padane o grattacieli nordamericani. Ma anche la terra intesa proprio come terreno, il fertile terreno lavico come le sciare più aride. Terreno che, mica tanto tempo fa, qualcuno iniziò a capire fosse adatto a produrre grandi vini, i vini dell'Etna. Il pioniere in questione era Giuseppe Benanti, un grande imprenditore, capace con passione e perfezionismo di gestire e creare cose che prima non c'erano in un territorio difficile come quello di Catania: una grande azienda farmaceutica, un'azienda vinicola, un ristorante gourmet di alto livello. Scomparso a fine gennaio a 78 anni, il cavaliere del lavoro Benanti era un uomo che, quando lo conobbi, vent'anni fa, contraddiceva tutti i luoghi comuni sul Sud. Specie quelli sull'impossibilità di puntare in alto. E di fare cose belle e buone per tutti, compresa l'attenzione all'ambente di lavoro e al benessere dei suoi dipendenti.

Ma ci poteva essere qualcosa in comune tra un laboratorio farmaceutico, una cantina e una cucina? Sì, se l’anima delle tre iniziative era questo imprenditore dal genio alchemico che sapeva trasformare in oro ciò che toccava. Colliri o vini, instillare o distillare, l’importante era fare tutto al meglio, con precisione scientifica, con un'identica passione immessa nella sua azienda e nell'estrarre gli umori del sottosuolo. Perché Benanti era pervaso da un fuoco sacro: «la voglia di essere un riferimento». Così la sua Sifi (Società Industria Farmaceutica Italiana) pareva un’azienda farmaceutica svizzera, i suoi Nero d’Avola e Nerello Cappuccio avevano avuto due bicchieri dal Gambero Rosso, il suo «Tre bicchieri» (nome che suonava come un auspicio?) era il ristorante catanese più esaltato dalle guide e aveva nella lista dei vini 800 etichette, più che in tutti i ristoranti di Catania messi assieme. E oggi, come ha scritto il Gambero Rosso ricordandolo, “i vini di Benanti sono diventati dei grandi classici dell’enologia tricolore, su tutti l’Etna Bianco Superiore Pietra Marina, un Carricante semplicemente unico per profondità e complessità. I pochi fortunati che hanno ancora in cantina dei millesimi degli anni ’90 sanno di avere tra le mani uno dei più grandi bianchi mai prodotti sul territorio italiano. Ma anche sul fronte dei rossi ha fatto scuola, a partire dal Serra della Contessa, che da tempo gira il mondo raccontando, al ritmo del nerello mascalese, il valore di questo spicchio unico di Sicilia”.

Una leadership nata non per caso, come Benanti mi aveva spiegato in quel lontano 2003: «Il mio vino nasce da una scommessa di 15 anni fa: fare il miglior vino dell’Etna. E nasce dalla nostalgia dei profumi percepiti da bambino nella casa del nonno, a Viagrande: il palmento in pietra, l’uva pigiata, il nonno che mi diffidava dal piluccare. Poi nasce dalla passione per questa terra lavica, che dà vini così minerali, e dal desiderio di diffondere cultura, stile di vita, alti livelli di cantina. Perciò ho aperto un ristorante dalla cucina creativa, dove non si trova né pasta alla Norma né collane di aglio alle pareti, trasformando la casa del bisnonno in un ambiente elegante e rilassante. Spero solo che i catanesi se lo meritino».

Insomma, seduti alla tavola o alla scrivania, ciò che contava per lui era stare bene: dunque anche alla Sifi, un’azienda sbocciata come un fiore in mezzo alla lava. Si guardi alle date: la prima pietra della cristallina sede di Lavinaio era stata posta nel 1985, un anno dopo l’omicidio del giornalista Giuseppe Fava, truce simbolo di anni di piombo in cui la mafia a Catania faceva cento vittime all’anno e faceva piangere parecchia gente. Ma puntare sui colliri non era un atto dal valore simbolico per lenire quelle lacrime, era puro coraggio imprenditoriale, giustamente premiato: un italiano su due con un'infezione agli occhi usava farmaci Sifi (chi non ha mai messo il Colbiocin?), mentre il fatturato era salito a 45 milioni annui.

«La Sifi, fondata nel 1935 da mio nonno, non si confronta con la realtà locale ma con il contesto internazionale», mi spiegava Benanti. Lo diceva come se stesse parlando di un’azienda del Nordest, ma aveva ragione: la Sifi era stata umilmente concepita nel retro di una farmacia in piazza Spirito Santo, ma era diventata leader italiana nel settore. Unica impresa oftalmica europea a capitale privato, la Sifi si avvaleva di un moderno stabilimento, ad Aci Sant’Antonio, località Lavinaio, sulle pendici dell’Etna, a ciclo completo (ricerca, sviluppo, produzione e commercializzazione) e capace allora di produrre 18 milioni di confezioni farmaceutiche l’anno. Aveva filiali dall’Argentina alla Romania, era stata scelta dal gigante Schering-Plough per produrre antibiotici, stava costruendo un grande centro ricerca, aveva acquistato due costosissime macchine per confezionare prodotti sterili in monodose (allora una novità), creava molecole nuove così come rivoluzionari misuratori delle abilità visive. «L’innovazione è un’attitudine mentale», sottolineava il presidente, «bisogna gestire il presente immaginando il futuro».

Vedere meglio e vedere lontano, insomma. Tanto che, in una realtà poco sensibile al dibattito sulla responsabilità sociale dell’impresa, Benanti aveva realizzato due strutture gioiello per i 325 dipendenti dell'epoca, fra cui tante donne e mamme: una scuola per l’infanzia e una palestra, dove modelli educativi e attrezzature ginniche gareggiavano in modernità. Di più: a ridosso dell’azienda era stato creato un laghetto artificiale per meditazioni zen. Forse non era solo per l’attenta politica di incentivi che i dipendenti Sifi apparivano motivati come in poche altre aziende, dell'isola e non solo. A dimostrare che lo stile di vita sapeva e poteva generare qualità della vita. Ed è quanto Giuseppe Benanti lascia in eredità: sia ai figli gemelli che portano avanti l'azienda vinicola, sia alla Sifi che da tempo aveva affidato ad altre mani, perché continuassero a farla crescere. Oggi così Sifi produce e fa ricerca in Italia, Spagna, Francia, Romania, Messico e Turchia, supportata da 21 Invest, la società di private equity fondata da Alessandro Benetton. Un'azienda oggi da 80 milioni di fatturato che, fedele all'impostazione data da Benanti prima che la parità di genere diventasse un obbligo del politicamente corretto, fra i suoi dipendenti conta 200 uomini e 200 donne.


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