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Quell’insostenibile tensione tra progetto e realtà.

di Luigi Maruzzi

Antonio Tabucchi ha scritto “Sono stato me stesso. E gli altri/tutti gli altri che potevo essere./(…)/Perché la vita, non basta./La vita, non basta”(1). A distanza di otto anni dalla scomparsa dello scrittore innamorato di Pessoa e del Portogallo, don Luigi Ciotti sembra rispondergli attraverso la sua autobiografia intitolata “L’amore non basta” (2). Questa suggestione ha vinto sulla mia pigrizia costringendomi a mettere per iscritto una riflessione che vorrei proporre ai miei lettori di VITA.

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Quando, agli inizi degli anni Settanta il mio aereo grattò l’asfalto della pista di Fiumicino, nessuno mi disse (nemmeno i miei amorevoli genitori) che da lì a qualche ora mi sarei ritrovato “marziano” a 600 metri di altezza sul promontorio del Gargano. C’è solo un modo per descrivere come mi sentivo durante i primi due anni trascorsi in una cittadina del foggiano; e sarebbe quello di ricorrere alle espressioni usate da Susanna Tamaro nella pubblicazione della sua anamnesi (3): qualcosa di molto simile ad un soggetto autistico. Poi, però, sono dovuto crescere abbastanza in fretta e la cosa più bella è stata quella di scoprire un gruppo di ragazzi che gravitava attorno all’ambiente parrocchiale di un quartiere che non era il mio. Ero letteralmente circondato da persone che sentivano il dovere di fare qualcosa per gli altri. Questo mi affascinava, e ne rimasi felicemente catturato.

Finito quel periodo, traslocai la mia vita a Foggia. Non conoscevo l’espressione “fare del bene”, ma verso i 16 anni ho cominciato a usare la parola “volontario” (del coro, del gruppo disabili, della “sofferenza”). In quegli anni il sentimento che pervadeva la maggior parte dei giovani era ‘denso’ (4), tenuto continuamente sotto pressione, e per noi era normale che questo stato di cose portasse anche a fare delle scelte estreme: o ti drogavi (per rinuncia di fronte alla sfida delle ingiustizie) o ti facevi prete (per dare un segnale inequivocabile al mondo). Nel 1980 un evento drammatico riuscì a raccogliere l’energia che stava covando nella generazione emergente. Il terremoto dell’Irpinia scosse le coscienze e finì per mobilitare centinaia di giovani che, pur non conoscendo il termine “umanitario”, avevano cominciato a scrivere la loro grammatica del dono e della filantropia operosa.

Parlo di un pezzo di storia che conosco meglio. Ma sappiamo che nello stesso periodo, in altre zone della Penisola, si stavano già prodigando per gli altri coloro che poi avremmo riconosciuto come i nostri giganti più veri. E don Luigi Ciotti, una pianta nata in terra veneta, divenuta albero ben radicato a Torino, era uno di loro. Nel 2020 don Luigi ha voluto raccontare con un libro il senso di un anniversario importante per il Gruppo Abele (55°). Il suo messaggio centrale è chiaro: i buoni sentimenti, da soli, non portano da nessuna parte; senza un forte senso della giustizia non è possibile penetrare il dolore dell’altro per poi arrivare a guarirlo. Non è una lettura come tante. Le cose di cui parla don Ciotti mi arrivano come un pugno ricevuto in pieno viso, una sensazione che non dipende dal fondatore del Gruppo Abele. Le sue parole, infatti, sono memoria, testimonianza e insegnamento. Le mie reazioni, invece, sono il ritratto dell’incapacità di avvicinarsi con la propria vita ad una delle aspirazioni più elevate: prendersi cura del corpo dell’altro per dare all’anima un posto dove abitare (5).

Per chi vuole occuparsi oggi di filantropia risulta decisivo innanzitutto capire i bisogni dell’altro, partendo da quelli basilari. Forse, questo implica una predisposizione che non tutti hanno, anche se a tutti deve essere offerta la possibilità di dare una mano, di collaborare. Mi viene in mente un’amica religiosa, penso alla sua abilità più grande, alla sua conoscenza (profonda e pragmatica) dello stato di bisogno in cui si trovano le persone che incontra; ogni suo gesto caritatevole genera stupore perché nella sua efficacia si nasconde sempre qualcosa di raffinato, elegante e regale. Anche don Ciotti chiarisce questo concetto nel suo decalogo della solidarietà: un piatto di pasta, un sostegno medico, l’ascolto, la disponibilità a discutere insieme, un momento di sollievo e di calore, sono azioni che non possono mancare. Col tempo la sua visione della carità è andata componendo un catalogo ricco di sperimentazione, innovazione e strutturazione che ha consentito di realizzare – ad esempio – laboratori, botteghe, comunità, aziende agricole e altre imprese sociali.

Celebrare l’anniversario di un ente nonprofit può essere utile per sottolineare un traguardo ben più importante di quello anagrafico (6). Auguri al Gruppo Abele per i suoi progetti futuri e grazie, don Luigi, per averci dato attraverso il racconto della tua vita un modo per conoscere persone straordinarie che hanno scelto di agire silenziosamente dietro le quinte, come Margherita Pier Luigi Clara e Giulio.

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(1) I versi sono contenuti in “Gli ultimi tre giorni di Fernando Pessoa”, Sellerio, 1994.

(2) Luigi Ciotti, L’amore non basta, Giunti, 2020.

(3) Susanna Tamaro, Il tuo sguardo illumina il mondo, Solferino, 2018

(4) Di un sentimento “un po’ troppo denso” canta Lucio Battisti nel brano “Con il nastro rosa” (1980).

(5) Luigi Ciotti, L’amore non basta, pag.137.

(6) Anche Fondazione Cariplo ha compiuto 30 anni nel 2021. Suggerisco di tenere d’occhio le manifestazioni programmate nel corso di tutto il 2022, accedendo al suo sito internet (www.fondazionecariplo.it).


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