Cultura

McCarthy? Drammatica forza e fascino evocativo

Recensione del libro "Il guardiano del frutteto" di Cormac McCarthy.

di Domenico Stolfi

L?ambivalenza della natura selvaggia, ora matrigna ora sublime, la prosa dalle cadenze bibliche e faulkneriane, un pathos visionario che svelle stolide sicumere e panciute certezze. E ancora, la capacità di calarsi negli abissi dell?anima umana e di mostrare la deriva di uomini morsi dall?odio, annientati da una violenza belluina che la prosopopea delle azioni civilizzatrici potrà pur mascherare e imbellettare, ma mai cancellare. Insomma, Il guardiano del frutteto (Einaudi, 15 euro), primo romanzo di Cormac McCarthy, tradotto finalmente anche in Italia, è un po? l?epitome di tutto quello che il grande e solitario scrittore americano ha sviluppato nelle opere successive, a cominciare dai capolavori Meridiano di sangue, Il buio fuori e Cavalli selvaggi. Dell?opera prima, questo romanzo ha l?urgenza d?un dire affannoso e concitato, che tenta di circoscrivere con uno sforzo immane, quasi fisico, una materia centrifuga, proteiforme e schiumante che schizza da tutte le parti. Ma, seppure non ancora controllata appieno, la storia del contrabbandiere di whisky Marion Sylder e del suo giovane sodale John Wesley Rattner, ambientata in una comunità rurale del Tennessee negli anni tra le due guerre mondiali, ha gran fascino evocativo e forza drammatica. E poi, la scrittura di McCarthy, innervata, folta e possente, ha già quel meraviglioso impatto visivo, a metà strada tra Ansel Adams e Sam Peckinpah, che costituisce una delle qualità più preziose delle opere successive.

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