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Economia & Impresa sociale 

Pensare fuori dagli schemi: il ruolo delle adozioni internazionali per lo sviluppo di una politica estera comune in Europa

di Marcello Esposito

Il Presidente del Consiglio ha invitato il futuro Presidente della Commissione a pensare fuori dagli schemi per rilanciare l’Europa. Renzi ci perdonerà se alziamo la mano e proviamo a fare una piccola proposta per superare quella che tutti gli osservatori giudicano la grande debolezza dell’Europa: l’assenza di una politica estera comune.

Per lo sviluppo di una politica estera comune è sempre mancato il punto di attacco. Le grandi crisi geopolitiche non riescono a fare da catalizzatore perché alla fine prevalgono gli interessi strategici ed economici nazionali. Inutile insistere con i soliti discorsi, ripetuti mille volte. E’ sufficiente che sia a rischio una commessa militare o qualche pozzo di petrolio e ogni paese europeo inizia a marciare per la sua strada. Cambiamo allora schema e partiamo dalla dimensione “sociale” dell’Europa, che è poi quella che i cittadini hanno dimostrato di amare di più (vedi Erasmus o Schengen o anche la stessa sostituzione delle valute nazionali con l’euro) e per la quale i cittadini sono disposti a far sentire la loro voce.

Senza interferire in una materia come quella del diritto familiare che rimane di competenza nazionale, la proposta è che i singoli paesi membri mettano a disposizione la propria rete di ambasciate e consolati nei paesi extra-comunitari, al solo scopo di sbrigare le pratiche burocratiche per quel che riguarda il ritorno a casa delle neo-famiglie. Si badi bene che non stiamo parlando della fase prima della sentenza estera di adozione, ma della fase che inizia subito dopo che il tribunale straniero ha emesso tale sentenza. In questa fase, la neo-famiglia risiede ancora nel paese straniero e non può rientrare a casa perché la sentenza deve essere recepita dalle autorità competenti del proprio paese (il CAI in Italia). La sentenza (ed altra documentazione anagrafica) ad esempio deve essere tradotta nella propria lingua (ad esempio, dal portoghese all’italiano) e poi la traduzione deve essere autenticata. I documenti vanno portati al consolato/ambasciata più vicina e da qui inviati al CAI. Una volta che il CAI autorizza, viene conferita la cittadinanza italiana e sono emessi i passaporti che consentono ai bambini di viaggiare con i neo-genitori e ritornare in Italia.

Solo per avere un’idea della complessità, dei tempi e dei costi, posso riportare la mia esperienza. Noi abbiamo adottato a Belem, una città brasiliana posta sull’equatore. La traduzione autenticata l’abbiamo dovuta far fare a San Paolo (2900 km a sud). La traduzione l’abbiamo dovuta portare al consolato più vicino, che è a Recife (1700 km) ed apre a giorni alterni, dovendo servire un’area grande 1/3 dell’Europa. Potersi appoggiare ai consolati degli altri paesi europei presenti a Belem avrebbe fatto una differenza non da poco.

La proposta è quindi molto semplice: utilizzare le strutture consolari di un qualsiasi paese della UE per la trasmissione e la ricezione dei documenti ufficiali da e per l’Italia.

Ma da qui si può procedere subito in altre direzioni, dal significato profondo. Ad esempio, si può pensare ad un passaporto europeo, specifico per i minori adottati o per altre situazioni speciali in cui un cittadino europeo può venirsi a trovare (ad esempio, furto dei documenti di viaggio, ….) e utilizzabile solo in via temporanea, sostanzialmente per il viaggio di rientro. La prima cittadinanza del bambino, il suo primo passaporto sarebbe “europeo”.

Non solo. La traduzione dei documenti potrebbe essere operata dal centro traduzioni di Bruxelles, se la lingua in cui sono redatti i documenti legali è una delle lingue parlate anche nella Unione Europea (con inglese, francese, spagnolo e portoghese si coprono parecchie destinazioni). Magari, in questo modo i cittadini inizierebbero a percepire la diversità linguistica e culturale dell’Europa come un valore positivo, non come un fardello economico.


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