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“…nella mente degli uomini.” Oltre la Settimana ONU per il Disarmo

di Pasquale Pugliese

La Settimana del disarmo e la sua rimozione

A partire dal 1978, tutti gli anni le Nazioni Unite promuovono, dal 24 al 30 ottobre, la “Settimana internazionale per il Disarmo”, istituita dall”Assemblea Generale per ricordare la data di fondazione dell’ONU, avvenuta il 24 ottobre 1945 allo scopo di “salvare le future generazioni dal flagello della guerra” (com’è scritto nel Preambolo dello Statuto). Nel documento del ’78 istitutivo della Settimana si richiama l’attenzione degli Stati sull’estrema pericolosità della corsa agli armamenti, si incoraggiano a compiere gli sforzi per porvi fine e a sensibilizzare l’opinione pubblica sull’urgenza del disarmo.

Oggi la corsa agli armamenti è di gran lunga più grave e accelerata degli anni ’70 – le spese militari globali sono aumentate del 50% nel decennio 2002-2012 – ossia i governi nel loro insieme non hanno mai speso tanto per la guerra quanto in questa fase di gravissima crisi economica e sociale globale, che ha portato alla drastica riduzione delle condizioni di vita anche nei paesi che avevano sperimentato nel corso del ’900 forme avanzate di stato sociale. Tuttavia, il tema del disarmo è completamente rimosso dalle agende politiche nazionali e internazionali, sottratto dai media all’attenzione dell’opinione pubblica, non più evocato dagli intellettuali, ne perseguito da sindacati e partiti di massa.

 L’impatto economico globale della violenza. Il GPI

Eppure, le analisi comparative sulla desiderabilità sociale del disarmo non mancano. Per esempio il Global Peace Index (GPI) – rapporto sullo stato della pace nel mondo a cura dell’indipendente Istituto per l’Economia e la Pace – che analizza i dati delle Nazioni Unite, della Banca Mondiale, degli istituti strategici internazionali, giunto nel 2013 alla sua settima edizione, oltre a proporre gli indicatori di pace nei singoli paesi, prova a capire quanto ci costa in termini economici globali la violenza, a cominciare dalla guerra e dalla sua preparazione, ma anche il costo degli omicidi, dei crimini violenti e delle loro conseguenze. Il GPI stima l’impatto economico globale delle attività connesse alla violenza nel 2012 in 9.500 miliardi di dollari, ossia nell’11% del PIL Mondiale. Le spese militari sono uno degli indicatori utilizzati per calcolare l’impatto economico della violenza, ma costituiscono da sole il 51 % dei costi globali.

Il rapporto del GPI calcola che se ci fosse una riduzione del 50 % dei costi della violenza – più o meno corrispondente alla cancellazione delle sole spese militari globali – si libererebbero talmente tante risorse economiche da ripagare il debito estero dei Paesi impoveriti (4.076 $ miliardi), fornire abbastanza risorse per il meccanismo di stabilità europeo (900 miliardi dollari) e finanziare la somma aggiuntiva necessaria per il costo annuale degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio promosso dalle Nazioni Unite: eradicare la povertà e la fame, dare a tutti l’educazione primaria, promuovere l’uguaglianza di genere, ridurre la mortalità infantile ecc. (60 miliardi). Insomma oggi disarmo significa porre fine della crisi globale ed alle sofferenza nel sud e nel nord del mondo.

Per un nuovo dividendo di pace

La consapevolezza dei benefici derivanti dal disarmo, piuttosto diffusa – almeno a sinistra – durante la “guerra fredda”, un tempo si chiamava “dividendo di pace”. Oggi questo concetto è desueto, archiviato insieme alla guerra fredda. Solo gli armamenti – nucleari e convenzionali – non sono stati archiviati, ma riammodernati (come le testate nucleari sul territorio italiano), rifinanziati (come tutti i programmi militari italiani, a partire dagli F-35 ma non solo) e, spesso, usati nei molti teatri internazionali di guerra. Però rimossi dalla coscienza collettiva. Nel pieno di una nuova corsa agli armamenti, imposta dalla lobby internazionale delle armi, la politica e la cultura sono diventati incapaci anche solo di immaginare una prospettiva realistica di disarmo, supportata dalla parallela costruzione di strumenti non armati e nonviolenti di gestione dei conflitti. Per quanto tartassati dalle antisociali leggi di stabilità, nel dibattito pubblico è drammaticamente assente una vision of humanity (come la definiscono gli autori del GPI) liberata dalla scontata e crescente proliferazione degli armamenti, che non solo uccidono quando vengono usati ma cannibalizzano le risorse per la vita, mentre vengono approntati.

Insomma c’è bisogno di un profondo disarmo culturale, che imponga quello politico, economico e militare, ci consenta di poter vedere i vantaggi della liberazione dagli armamenti e realizzi un vero dividendo di pace. Non a caso nel Preambolo della Costituzione dell’UNESCO, l’Agenzia delle Nazioni Unite per l’educazione, le scienze e la cultura (costituita poche settimane dopo l’ONU) è scritto “poiché le guerre hanno inizio nella mente degli uomini, è nella mente che bisogna costruire le difese della pace“. Molti decenni dopo è ancora da qui che bisogna partire, dal disarmare le nostre menti. Non solo per una settimana.


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