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Politica & Istituzioni

L’Aquila, lo strazio continua

di Riccardo Bonacina

Il terremoto è punto di rottura tra ciò che non c’è più e ciò che ancora non si sa come sarà. Tra ciò che non c’è più (la costruzione di una vita che torna nello spazio di un attimo solo al ground zero) e ciò che ancora non c’è (che lavoro farò? Dove? E la scuola dei figli? E la casa?), c’è l’individuo in un’assoluta condizione di bisogno. Ad oltre 100 giorni dalle 3,32 del 6 aprile, gli aquilani sono ancora alle prese con l’elaborazione del lutto privato e collettivo. A L’Aquila si vive in una condizione sospesa (così è oggi) tra le necessità della tutela dei bisogni primari di una popolazione di sfollati superiore ai 50mila, e la tutela di bisogni privati e collettivi che ancora non hanno forza e soggettività per esprimersi. Una condizione di sospensione e di limbo che rischia di prolungarsi all’infinito. Perché è difficile uscire dalle tutele e ripendere in mano i bisogni, è difficile perché la terra ancora trema, è difficile per la diaspora di ogni legame e di ogni rete, è difficile perché prendere coscienza del proprio bisogno richiede un minimo di lucidità. Così L’Aquila e gli aquilani sono schiacciati tra la macchina potente e prepotente della Protezione civile che continua il suo lavoro e lo sfarinamento di identità e soggettività locali (istituzionali e sociali).

In questi giorni è cominciata l’operazione “recupero beni”, ovvero gli aquilani che hanno la possibilità di mettere al riparo beni e arredi che ancora stanno nelle case distrutte e lesionate (come in una fotografia di quel 6 aprile lunga 110 giorni) possono far richiesta ai Vigili del fuoco per il recupero. Così il centro fantasma de L’Aquila si comincia a popolare di qualche famiglia imopegnata nell’operazione. Un’operazione straziante che fa rivivere secondo dopo secondo quella tragica notte e che ricorda il tuo personale ground zero, la violenza di quei secondi che hanno porato via i sacrifici di una vita, l’intimità di una casa fatta anche di cose, oggetti. Così per non piangere troppo, come fa la signora nella foto, ci si piega su ciò che resta. Fosse anche un solo divano, per ripulirlo dai calcinacci. Si ricomincia a prendersi cura di ciò che è rimasto. Sola premessa possibile a ogni pensiero su ciò che sarà.

Sui prossimi numeri di Vita l’inchiesta che, col giovane collega Lorenzo Alvaro, abbiamo fatto nei giorni scorsi nell’aquilano


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