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Comunità, devi dare scandalo

L’aspirazione originaria era creare avamposti sociali che ricordassero alla società civile e alla politica l’esistenza di emergenze e sofferenze. Poi qualcuno ha preferito...

di Franco Taverna

A margine dell?incontro delle comunità terapeutiche lombarde mi pare che si imponga una pesante domanda sul senso della proposta comunitaria. Un interrogativo che ci chiede di guardare indietro, al tempo della nostra origine: i cambiamenti apportati sono un coerente sviluppo della nostra matrice oppure ci collocano già all?interno di un?altra prospettiva che poco c?entra con la nostra storia?

Al momento della loro nascita le comunità erano certamente un luogo di recupero per le persone tossicodipendenti ma volevano anche essere dei punti di domanda, delle provocazioni sul modo di affrontare le gravi questioni sociali da parte delle istituzioni.

Le comunità non si accontentavano cioè di risolvere il problema di alcuni tossicodipendenti; consapevoli di essere nate perché mosse da uno ?scandalo? – nel senso letterale del termine – volevano loro stesse diventare uno ?scandalo?, una spina nel fianco per la quieta società civile, per la politica ufficiale, per il sistema dei servizi pubblici.

Le comunità nascono con un?anima critica, sia perché muovono i loro primi passi in un particolare momento storico, gli anni del 68 che videro sorgere il grande movimento giovanile e il post Concilio, sia perché vennero promosse da persone – perlopiù sacerdoti – con una ampia visione sociale: preti delle strade e delle piazze, più che dei confessionali. Sul finire degli anni 70 e negli anni 80 si cominciarono a vedere le prime strutture pubbliche, e dalla prima metà degli anni 90 fino ad oggi si è avviata una progressiva integrazione delle comunità all?interno del sistema dei servizi sociosanitari territoriali. Iniziano, all?interno delle Regioni, i percorsi tendenti a definire l?accreditamento delle strutture che compongono il sistema di intervento (prevenzione, riabilitazione e cura) delle dipendenze patologiche. Sia per le strutture pubbliche che per quelle del privato sociale.

Da alcuni anni sembra che si stiano delineando due strade, sempre più divaricate. Da una parte vi sono coloro che aspirano alla piena integrazione delle comunità all?interno del sistema dei servizi: hanno di mira la certificazione di qualità, la standardizzazione dei processi gestionali, l?omologazione delle procedure, delle cartelle di ingresso, della valutazione dei programmi terapeutici?

Dall?altra ci sono quelli che si preoccupano dell?Iso 9001 e continuano a vedere le comunità come punte avanzate della più grande questione sociale nel nostro Paese, come se fossero sentinelle attente alle variazioni dei bisogni e delle ?sofferenze?, secondo una aspirazione originaria che caratterizza la comunità come un avamposto sociale. Secondo questi le comunità non si collocano all?interno del sistema dei servizi, bensì nel territorio di confine. La comunità, che alla sua origine è stata il luogo dell?avamposto, per alcuni (per noi) resta anche oggi un contesto di avanguardia, sensibile alla rilevazione delle nuove problematiche sociali e per questo un contesto privilegiato per la sperimentazione di nuove modalità di aiuto e di relazione per i nuovi ?bisognosi?.

La comunità, intesa sia come struttura di accoglienza sia come gruppo allargato di persone che interagiscono con essa, solo in questa sua funzione quasi fisica di presenza di confine, diventa ancora capace di generare nuove risposte all?affacciarsi di nuove sollecitazioni provenienti da territori poco conosciuti.

*coordinatore delle Comunità Exodus


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